Rientrare nel Pd non serve a nessuno.
Il pippone del venerdì/113
I commentatori, ma anche diversi leader politici a partire dallo stesso Renzi, danno per scontato che l’uscita dell’ex segretario dal Pd coincida con il rientro delle truppe “rosse” di Bersani e D’Alema. Ora a parte che dipingerli come pericolosi estremisti pare un’operazione davvero eccessiva. Stiamo parlando sempre dell’ex presidente del Consiglio che, per primo in Italia, sposò le tesi di Blair e dell’ex ministro famoso per le lenzuolate di liberalizzazioni. Due leader che nella loro carriera politica sono stati ampiamente criticati proprio da quella sinistra cosiddetta radicale che li ha a lungo osteggiati. Anche con qualche ragione. Due riformisti doc, insomma. Se poi cantano bandiera rossa (anche se l’immagine di D’Alema che canta non regge un granché) lo fanno magari per ricordare la gioventù, forse anche con qualche nostalgia, ma di sicuro per loro quella del comunismo non è una prospettiva politica. Ma questo è un altro discorso, sapete come la penso.
Detto questo, al momento, l’unica che ha annunciato la sua adesione al Pd è l’ex Forza Italia Beatrice Lorenzin. Affascinata dal carisma di Franceschini, dicono, interessata comunque a rafforzare la componente di centro che, malgrado quello che appare all’esterno, è sempre più la vera pietra attorno alla quale ruota tutto il partito. Senza Franceschini, mi pare ormai evidente, non si governa quel partito e non si vincono le primare.
Il vero ragionamento che si dovrebbe fare – qualcuno timidamente ci prova – è se l’attuale offerta politica presente in Italia rappresenti l’elettorato. E qui si può aprire un ragionamento serio. Al momento, e gli ultimi partiti nati o nascenti rappresentano bene questa situazione, vanno di moda i leader più che i partiti. E’ un po’ la rappresentazione plastica di quello che scrivevo nell’ultimo pippone la settimana scorsa. La conseguenza della vittoria della cultura berlusconiana che ha scassato i corpi intermedi si riflette nella costituzione di forze politiche in cui conta solo il leader. In suo nome nascono, dopo di lui muoiono. Il partito di Renzi, quello di Calenda, quello di Toti, ma anche se vogliamo Fratelli d’Italia della Meloni e ancor più la Lega di Salvini, contano per quello che dice il leader. All’estremo opposto stanno i 5 stelle, dove, almeno a parole, si vorrebbe praticare una sempre più spinta forma di democrazia diretta che travalica il concetto stesso di partito. Poi, alla fine, comanda sempre Grillo, ma la teoria di Casaleggio (padre) andava proprio a colpire l’essenza stessa della democrazia rappresentativa che, a suo dire, andava sostituita da una consultazione continua del corpo elettorale, rendendo superflue le forze politiche tradizionali. Semplifico, ma alla fine il concetto è questo.
Il Pd stesso, lo ha spiegato bene Renzi nell’intervista dell’addio, nasce con il presupposto del partito carismatico, dove il leader viene scelto attraverso le primarie aperte e il ruolo dei militanti viene declassato a meri cuocitori di salsicce nelle feste estive. Portatori d’acqua senza alcun diritto di scelta in più rispetto ai semplici elettori. E infatti gli iscritti calano e le feste non si fanno quasi più.
La domanda da porsi allora non è se la sinistra di Speranza e Bersani rientrerà o meno nel Pd. Anche perché non si capisce bene, in termini meramente numerici, quale spostamento a sinistra potrebbero determinare in un partito dominato dai centristi alla Franceschini, uno che con i numeri ci sa fare e parecchio. La vera domanda da porsi è se questo schema basato sui partiti personali sia la conseguenza ineluttabile del nostro modello sociale (del resto avviene un po’ in tutto il mondo) oppure se ci sia un mare aperto da navigare a patto di attrezzarsi con la barca giusta. E qui l’esperienza di D’Alema una mano vera la potrebbe dare.
Ovvero: nel mondo di oggi siamo destinati a dare unicamente la fiducia a leader che manco ci dicono cosa vogliano fare, oppure c’è una strada alternativa? Sarà anche vero che destra e sinistra non esistono più, ma rimangono – e sono sempre più drammatiche – quelle diseguaglianza che sono alla base della nascita stessa della sinistra. E’ una domanda alla quale occorre dare una risposta anche in tempi rapidi. L’argine all’avanzata delle destre estreme che in questo momento è rappresentato dal governo Conte2 regge se gli si dà un orizzonte culturale, una mission. Altrimenti, a maggior ragione dopo la scissione di Renzi, sarà un governo in balia dei voti parlamentari, una scialuppa alla mercé delle onde bizzose del leader di turno.
E in questo quadro sta alla sinistra, sia pur socia minoritaria nella maggioranza, provare a dare un timone certo alla scialuppa. Altrimenti non arriveremo mai alla terra ferma.
Quindi la domanda, alla fine, non è se valga la pena rientrare o meno nel Pd. Ma se Zingaretti riuscirà a smarcarsi dal suo ruolo di tacchino designato e diventare il protagonista di un cambiamento vero nel campo politico nazionale, aprendo una vera fase costituente. Non di un nuovo partito che rimescoli un po’ le carte esistenti. Bisogna aprire un cantiere vero che metta al centro non tanto le idee sul da farsi quotidiano, ma la costruzione di un nuovo orizzonte culturale. In questo quadro sì, allora sarebbe suicida per i vari Speranza, ma anche Fratoianni e spezzatini vari, stare alla finestra e non partecipare. Io non credo che ci siano le forze necessarie. Lo dico senza eufemismi. E francamente non me la sento di mettermi al servizio di un progetto che non abbia questa ambizione: interrompere la stagione dei partiti carismatici da nascono e muoiono in funzione del capo e riaprire un percorso di elaborazione culturale ancor prima che politica. Una grande stagione che ponga al centro i temi del socialismo e dell’ecologia che non possono essere più trattati su piani differenti e che abbia come scopo quello della costruzione di una grande forza laburista in Italia. Se si parte da questo e non dalla ricerca del leader a tutti i costi forse una speranza ce l’abbiamo anche noi. Staremo a vedere.