Due o tre sassolini sul “Caso Marino” e non solo.
Il pippone del venerdì/96
La sentenza della Cassazione che ha assolto l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha alzato un vespaio di polemiche che hanno al centro il Pd, il suo comportamento di quegli anni, ma che in realtà pongono problemi di portata ben più ampia sul ruolo dei partiti, sul rapporto fra questi e gli eletti. E questo, secondo me, è uno dei nodi che negli anni scorsi non siamo riusciti a sciogliere e che hanno aggravato la crisi della sinistra. Una crisi di idee, ma anche, per così dire, organizzativa. Nel senso che un partito solido in crisi di idee può cavalcare l’ondata avversa, un partito in crisi di idee che non ha più fondamenta organizzative viene travolto e non riesce tornare a galla.
Ma andiamo con ordine. Cosa è successo in quegli anni a Roma, nel campo del centrosinistra? Una lotta di potere all’ultimo sangue, nella quale la parte fino ad allora storicamente minoritaria del Pd e ancora prima nei Ds, quella che fa capo all’ex presidente del partito Matteo Orfini, si trova in mano per la prima volta la chiave della stanza dei bottoni e ne approfitta per regolare i conti. La caduta di Marino, le famose firme dal notaio, sono semplicemente una conseguenza di questa guerra, il secondo stadio di una strategia complessa il cui obiettivo era un altro: Nicola Zingaretti. Quel Nicola Zingaretti che, non a caso, sul caso Marino non spese una parola, tutt’altro: i consiglieri della sua corrente si accodarono silenti a firmare le dimissioni. Troppo rischioso opporsi.
Renzi voleva mettere le mani su Roma, tramite il proconsole Orfini, e allo stesso tempo pianificò a tavolino una strategia che avrebbe portato i 5 Stelle al governo di Roma. Nei piani dello statista fiorentino, che di Marino non aveva la minima stima e che dava Roma comunque per persa, la caduta anticipata dell’amministrazione avrebbe messo in difficoltà i 5 Stelle che ne avrebbero pagato poi lo scotto a livello nazionale alle elezioni politiche che sarebbero arrivate dopo un paio di anni. Sappiamo come sono andate le cose: i 5 stelle primo partito, il Pd allo sbando dopo una scissione non solo con un pezzo di gruppo dirigente, ma con buona parte dei suoi elettori.
Allora che è successo a Roma? Arriva la famosa inchiesta di Mafia Capitale. Che poi ancora non si capisce quale fosse l’elemento mafioso. Sono passati pochi mesi dall’elezione di Marino a sindaco. Mesi complicati dove l’inesperienza e anche una certa convinzione eccessiva dei propri mezzi – diciamola così – aveva provocato errori gravi. Ora, intanto Marino è uno che non si fida di nessuno. E quindi tende a circondarsi delle stesse persone, un cerchietto magico. Cosa che non porta mai troppo bene. Poi si stabilisce uno strano rapporto con il Pd di Roma. Marino accetta una serie di assessori indicati dal partito, ma poi fa di testa sua e spesso sbaglia. Clamoroso il caso di Paolo Masini che viene mandato ai Lavori pubblici. Masini è forse uno dei migliori dirigenti e amministratori di quella stagione. Peccato che in vita sua si sia sempre occupato di scuola, sociale, cultura.
Quando scoppia il caso di Mafia Capitale, comunque, per settimane non si parla d’altro. Pagine e paginate sui giornali. Su un caso che, badate bene, se guardato in scala capitolina è davvero marginale. A Roma gli affari si fanno sul mattone, quelle due cooperative sociali (perché alla fine di questo si tratta) che avrebbero pagato mazzette, si spartivano le briciole. Il caso, tra l’altro, riguarderebbe più l’amministrazione Alemanno che quella Marino. Eppure un assessore finisce addirittura in galera, vengono coinvolti consiglieri comunali e regionali. Vengono costretti a dimettersi dagli incarichi istituzionali che ricoprono con una violenza giustizialista inaudita.
Parte l’assalto al fortino. Renzi, in una drammatica riunione, comunica al segretario romano del Pd, Lionello Cosentino, che avrebbe commissariato la federazione. Cosentino, pochi mesi prima, aveva vinto il congresso proprio contro il candidato renziano e contro quello di Orfini. Notare: nessun esponente della federazione del Pd viene coinvolto nell’inchiesta, che si ferma al livello amministrativo. Tra l’altro, come dire, diversi dei nomi che escono sono stati nel passato più vicini a Orfini che a Cosentino. Le cui proteste, si racconta di una riunione parecchio nervosa, non hanno comunque effetto. Il presidente del partito diventa commissario. Secondo lo statuto del partito dovrebbero restare comunque in carica gli organismi dirigenti. Ma Matteo 2 non se ne cura e procede a colpi di decreti. Affida allo stimatissimo professor Barca una indagine sullo stato dei circoli del partito. Una roba davvero ridicola, con alcuni ricercatori universitari che girano facendo domande ai militanti senza minimamente capire come funzionava quel partito. Caso strano, dai risultati, annunciati in pompa magna dallo stesso Barca alla festa dell’Unità, emerge una sorta di hit parade dei circoli. Caso strano, quelli vicini al commissario sono i più virtuosi. Alcuni diventano addirittura circoli mafiosi. Altri vengono classificati come sostanzialmente inutili. All’epoca facevo, ironia della sorte, il segretario di un circolo di pertferia, a Capannelle, e durante l’intervista spiegai che le nostre attività erano state soprattutto rivolte verso l’esterno, citai la proposta della “Appia antica station”, il treno che doveva portare i turisti alle porte dei due grandi parchi archeologici della Capitale, le feste del quartiere, le raccolte di firme su temi locali. Portai un “portfolio” corposo di manifesti, volantini, iniziative in piazza, i rapporti con il comitato di quartiere, che avevamo contribuito a ricostruire. Nella classifica finimmo fra i circoli definiti “identitari”, ovvero quelli che lavoravano soltanto sull’identità del partito, chiusi al quartiere. Mistero.
Comunque sia la storia va avanti: Orfini chiude un po’ di circoli antipatici, si inventa perfino storie assurde, come quella della sede di Corviale dove aveva trovato un cavallo. Mai successo. E poi il colpo di mano sul partito: contro tutte le regole statutarie i circoli diventano soltanto 15, uno per municipio, diretti da commissari di stretta osservanza, le sedi territoriali (quasi duecento all’epoca) diventano semplici appendici, senza più alcuna autonomia: né finanziaria, né di iniziativa politica. Un golpe. Difficile trovare parole diverse. Un golpe che, tranne rarissime eccezioni, subiscono tutti. Impauriti da un eventuale scontro con Renzi, allora all’apice del potere.
Sistemato il partito, Orfini passa al Comune. Dove, diciamolo, le cose non vanno proprio benissimo. La gestione dei rifiuti, alcune scelte discutibili sul piano urbanistico, le partecipate in cui non si assiste all’inversione di tendenza necessaria dopo i disastri di Alemanno, qualche gaffe del sindaco che se ne va in vacanza in momenti di gravissima crisi. Ora, in questi casi che si fa (e qui arrivo al discorso del rapporto fra un partito e i suoi eletti)? Secondo me si apre una riflessione nel partito e collettivamente si cerca di porre rimedio. Per governare Roma serve davvero un’intelligenza collettiva che vada al di là delle capacità del singolo. Serve un progetto e una forte unità di intenti. Il centro sinistra non aveva nessuna delle due. Che fa Orfini? Piazza due commissari in giunta: il vicesindaco Causi e l’assessore ai trasporti Esposito. Un disastro, soprattutto il secondo che più che lavorare pare remare contro, ogni giorno di più. Nel frattempo hanno anche la pensata, in accordo con il governo nazionale di commissariare per mafia il Municipio di Ostia, già commissariato in seguito alla caduta del presidente Tassone (detto per inciso: anche in questo non uno vicino a Marino, diciamo così). Un obbrobrio giuridico che aggrava la pressione sul sindaco. Si commissaria Ostia come vittima sacrificale per salvare Roma, si dice. E invece no.
E’ solo una tappa. Il cerchio intorno al collo dei sindaco si stringe con campagne di stampa vergognose. Si va dalla panda lasciata in divieto di sosta, ai famosi scontrini delle cene, denunciati dal grillino De Vito (ora sotto inchiesta per corruzione).
Ma Marino era così odiato dai romani come sostenevano Orfini e Renzi? Posto che non era un grande sindaco, anzi, la verità è che il Pd fece di tutto per ostacolarlo. Con la complicità di Sel che, per bocca del segretario nazionale arrivò a minacciare una mozione di sfiducia. Salvo poi rimangiarsi tutto, perché i militanti si accorsero della cazzata e minacciarono la rivolta. Marino si dimise. Fu costretto a dimettersi dall’azione combinata da Renzi e Orfini e dal silenzio terribile di tutti gli altri. Ci fu una reazione popolare a favore del sindaco. Molto limitata a dire il vero, poche centinaia di persone. Ci andai anche io, che pure non ero un fan di Marino. Perché capii che al di là dell’efficacia dell’azione amministrativa stavamo imboccando la strada sbagliata. Il sindaco eletto dai cittadini, con il 60 e passa per cento dei voti per altro, lo devono giudicare i cittadini. E poi, insieme a lui, sarebbe stata travolta una intera giovane classe dirigente sui cui avevamo scommesso, con punte di assolute eccellenza fra i presidenti dei Municipi. Per la prima volta nella storia li governavamo tutti. Da quella crisi, con una sinergia fra Governo, Regione e Comune si sarebbe potuti uscire. Il sindaco ritirò le dimissioni e Orfini, invece, di riportare la vicenda in consiglio comunale, dove un dibattito pubblico avrebbe dato modo di dare a tutti la possibilità di dire la propria, ordina ai consiglieri di dimettersi, firmando di fronte a un notaio. Deve anche ricorrere a un aiutino dalla destra perché fra gli alleati qualcuno si rifiuta. Non sarà ricandidato, come Mino Dinoi, ad esempio.
Io resto convinto che Marino si sia fidato troppo e che, quando scoppio Mafia Capitale, si sarebbe dovuto dimettere per far sciogliere il consiglio comunale e ricandidarsi presentandosi come il paladino della legalità, l’uomo che sfidava ancora una volta i poteri forti. Quei poteri forti che, al di là del giudizio su quegli anni, non lo hanno mai potuto sopportare.
Insomma: fine 2015, seconda parte del golpe romano. Cade il Comune, si torna alle elezioni. Che poi, per i protagonisti di quella vicenda è stato l’inizio della serie di sconfitte che ha portato alla situazione attuale. Come dire: le congiure di palazzo non portano bene a chi le architetta.