Questo 25 aprile e il bisogno di una nuova Europa.
Il pippone del venerdì/98
Premessa doverosa, sono dovuto rimanere a casa, a causa di un po’ di influenza e anche – diciamolo – del nuovo arrivo in famiglia: una cucciolotta di due mesi, ancora un po’ spaesata, 8 chili di pelo e tenerezza. Questo per dire che non sono potuto andare alla manifestazione del 25 aprile come tutti gli anni. C’era mio figlio, per la prima volta. E questa è una buona notizia. Forse è solo cresciuto e quindi anche questo corteo fa parte del suo percorso di maturazione e di impegno politico, che seguo a rispettosa distanza. Ma forse – e leggendo i commentatori più attenti questa sensazione ne esce rafforzata – è il segno di una nuova generazione che lentamente si sta appropriando della politica e anche del 25 aprile, per anni frequentato solamente da vecchi arnesi come noi.
Ne abbiamo visti tanti, invece, di ragazzi nelle piazze negli ultimi mesi: c’erano alla manifestazione unitaria dei sindacati, c’erano ai cortei del movimento delle donne, ci sono soprattutto alle marce per combattere il climate change. Un tema che noi intorno ai 50, forse un po’ egoisticamente, vediamo con distacco, ma che i nostri figli sentono sulla loro pelle. Certo, rivedere tanti ragazzi in piazza per il 25 aprile non me lo aspettavo, lo confesso. Soprattutto a Roma, dove il corteo di Porta San Paolo negli ultimi anni è stato ricordato soprattutto per le polemiche. Che non sono mancate neanche stavolta, soprattutto per i fischi alla sindaca Raggi. Saranno stati anche scortesi, perché le istituzioni nate dalla Resistenza devono essere rispettate. Ma certo, se il tuo partito governa con quel Salvini che ha sbeffeggiato l’antifascismo e ha disertato il 25 aprile mettendolo addirittura in competizione con la lotta alla mafia, beh che una piazza molto di sinistra ti regali qualche fischio te lo devi aspettare. La Raggi si è presa comunque anche i suoi applausi. Roba di poco conto, insomma, rispetto a una nuova generazione che, almeno in parte si appropria di questa data ormai lontana.
Si sa che i giovani tendono a vedere il passato come roba vecchia e quindi è doppiamente significativo. E credo che a Roma sia stato ancora più importante perché hanno potuto sentire Aldo Tortorella, comandante partigiano durante la guerra di Liberazione, poi uno dei massimi dirigenti del Pci. Da sempre uno a cui piace parlare ai giovani e lo fa, malgrado i suoi 93 anni e la sua grande cultura, da paria pari. Senza nessuna pretesa di insegnare, come un nonno che racconta ai nipoti. Se ne è andata Tina Costa, da sempre anima del 25 aprile e dell’Anpi di Roma, di partigiani “veri” ne rimangono sempre meno. Questa generazione è l’ultima che ha la fortuna di sentire il racconto di quella stagione dai protagonisti. E avrà anche il compito di trasmettere questo patrimonio inestimabile alle generazioni future.
Io credo che la memoria sia sempre importante. Ancora di più se riguarda una stagione drammatica ma anche gloriosa come quella della guerra di Liberazione dal nazi-fascismo. E lo è a maggior in questi anni dove i fascisti hanno rialzato la testa, conquistato una sorta di diritto di cittadinanza a cui – la ripetizione è d’obbligo – non hanno invece alcun diritto. Ormai, ovunque, trovi gente che si definisce orgogliosamente fascista. Non sono solo frange estreme del tifo organizzato. A me è capitato, sui social, di interloquire con persone impegnate in politica, addirittura con cariche istituzionali, che non considerano una cosa scandalosa definirsi fascisti.
Che quindi ci sia una reazione, soprattutto nelle nuove generazioni è una cosa importante. Resta sempre il tema che a questi ragazzi che dimostrano sempre di più di essere in cerca di una sinistra credibile bisognerebbe dare una sponda politica, per dare continuità e solidità al loro impegno. Non riapro la ferita, perché volevo, invece, legare questo 25 aprile al bisogno di una nuova Europa. Che c’entra? Io credo che i due temi siano strettamente connessi: perché le istituzione europee furono pensate proprio come antidoto ai totalitarismi e alle guerre che avevano devastato il nostro continente. Dopo la seconda guerra mondiale si pensò che la strada per dare concretezza a quel “mai più” dichiarato da tutti i governi dell’epoca fosse quella di passare dalla coesistenza meramente geografica a istituzioni comuni.
La strada era quella giusta. E la crisi di credibilità e di consenso dell’Unione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non può avere come conclusione il ritorno alla dimensione nazionale. Perché è proprio nella dimensione nazionale che prosperano i fascismi e i populismi che diciamo di voler combattere. Semmai l’errore è stato quello di fare l’Europa dei governi e delle banche centrali. Io credo che la crisi di consenso della Ue derivi proprio dall’aver puntato e potenziato l’Unione economica e non quella politica. Potrà sembrare solo uno slogan ma serve davvero l’Europa dei popoli. E non come entità astratta: i cittadini devono poter eleggere un Parlamento europeo vero, che controlli il governo europeo e decida sui bilanci. Solo così avremo la possibilità di continuare ad avere un peso nella competizione globale e, soprattutto, diffondere una cultura fatta di pace e di democrazia. Valori che non si esportano con le guerre, ma con l’esempio.
Ecco, al di là della contesa elettorale, sulla quale come ampiamente detto non mi esprimo, io credo che il voto del 26 maggio sarà un voto utile se andrà a una delle formazioni italiane che sostengono questa tesi. Intanto incrociamo le dita per le elezioni spagnole di domenica. Anche lì, a guardare l’incertezza dei sondaggi, si trovano di fronte a un bivio. Vedremo se dalle urne uscirà ancora una situazione confusa come nelle ultime tornate o, al contrario, avremo un governo più tradizionale. Di certo la campagna elettorale è stata caratterizzata non dico da un’alleanza a sinistra fra i socialisti e Unidas Podemos, ma almeno da un tasso di conflittualità molto basso fra i possibili futuri alleati. Un’affermazione di queste due forze, tutte e due, è la condizione di poter continuare nella politica innovativa che, seppur con una maggioranza risicata, ha garantito al Psoe un nuovo slancio. Come dicevo: incrociamo le dita, potrebbe essere il primo segno di una inversione di tendenza.
Concludo con un ricordo di Pina Cocci. Non sono abituato a farlo e poi in fondo sta su tutti i giornali. Ma se non salutassi Pina che ci ha lasciato proprio ieri mi sentirei in colpa. Non la vedevo ormai molto spesso. Ma so che mi leggeva sempre e ogni tanto avrà anche smadonnato. Vorrei avere ancora l’occasione di prendermi i suoi rimbrotti severi che si concludevano sempre con un sorriso e un “Mo però abbracciami”. Ecco, ho la presunzione di credere che vedesse in me la stessa passione che aveva lei. E questo riconoscimento che mi regalava sempre mi mancherà davvero. Ti abbraccio comunque, compagna Cocci.
Liste per le Europee, la grande truffa
Il pippone del venerdì/97
Se volete incazzatevi pure e ditemi che uso termini violenti, ma secondo me è una vera e propria truffa. Mi ero ripromesso di non parlare di elezioni europee, di astenermi dalla bagarre fratricida di una campagna elettorale che si preannuncia, come ormai d’abitudine, tutta basata sull’individuazione del nemico (che è sempre il vicino di casa) e non sulla propria proposta. Siccome mi sono stancato di dire che ci vorrebbe una sinistra unita, che non servono a nulla i listoni che poi diventano listini, come non servono le ospitate in liste altrui, avevo deciso di tacere fino al 26 maggio, compreso. Seduto sulla classica sponda del fiume. Con la consapevolezza che il 27, comodamente appollaiato su quelle sponde, ci sarà da divertirsi.
Ma una cosa mi ha fatto salire la mosca al naso, pur in un periodo di grande calma interiore: la presa in giro sulla composizione delle liste. Ho avuto la ventura di seguire un po’ di conferenze stampa di presentazione, di leggere comunicati, commenti sui social dei soliti ultras che si sono già scatenati a più di un mese dal voto. E sono disgustato. Andrebbero denunciati per violenza di genere. Perché trovo che sia violenza l’uso delle donne che viene fatto in questi giorni. Tutti parlano di liste aperte alla società civile, liste femministe. C’è addirittura chi rivendica il fatto che “nella nostra testa di lista non ci sono segretari di partito ai primi posti, ma tante donne”.
Violenza di genere e raggiro dell’elettore. Perché questa volta l’essere in testa alla lista non conta nulla, se non fare da specchietto per le allodole. Si vota con le preferenze, non con le liste bloccate come alle politiche. Dunque l’ordine di presentazione serve soltanto a far vedere quanto è bella, aperta, civica e femminista una determinata formazione politica. Le magagne stanno sotto, fra i nomi messi in mezzo, di cui non ti accorgi fino a quando non arrivano i risultati degli scrutini. Sempre che poi si arrivi al 4 per cento, ipotesi in molti casi ben lontana dalla realtà. Senza quel famoso quorum tutto è vano: puoi mettere anche il nuovo Carl Marx in persona come capolista.
So che è roba da addetti ai lavori, ma provo a spiegarmi meglio: la campagna per le europee è una delle più complesse, anche se si possono esprimere più preferenze. Perché la circoscrizione elettorale è molto ampia. Quella dell’Italia centrale comprende Toscana, Lazio, Marche e Umbria. Per conquistare consensi, insomma, non basta essere la presidente di una favolosa onlus che però nessuno conosce o l’attivista di qualche movimento. Quello serve soltanto a guadagnarsi qualche titolo sui giornali radical chic. Bisogna avere una struttura ramificata, nei partiti più grandi bisogna essere sostenuti da una corrente di peso e, soprattutto, avere una grande disponibilità economica. Che nessuno provi a dire che al tempo di oggi si può costruire una campagna su internet quasi a costo zero. E che internet, per chi vuole usarla in maniera professionale, è gratis? Gli staff che studiano strategie e che poi ti seguono i social giorno e notte che lavorano per la gloria?
Che poi, scusate ma che male vi hanno fatto i vostri segretari di partito? Perché dire “questa volta non candidiamo i segretari”? Siete iscritti a quei partiti, che vi vergognate delle persone da cui siete diretti? E’ paradossalmente più apprezzabile Berlusconi che ci mette la faccia in proprio, magari esagera un po’ e fa il capolista quasi ovunque, ma non si nasconde dietro candidature civetta. La verità è che nessuno vuole fare spazio a una nuova classe dirigente, cerca solo di proteggere quella esistente. Da destra a sinistra la musica non cambia. I campioni della preferenza ci sono tutti, già schierati ai nastri di partenza, pronti a triturare i nomi nuovi in una gara crudele. Gli unici nuovi che emergeranno davvero sono quelli scelti dalle correnti per il fisiologico ricambio che avviene a tutte le consultazioni. Gli altri sono una truffa, lo ripeto.
Se ci pensate bene, tra l’altro, ma che senso ha sbattere in Europa uno che non ha mai fatto politica nelle istituzioni? Già la nostra natura estremamente provinciale fa sì che spesso l’europarlamento sia visto più o meno come un parcheggio di lusso in attesa di tornare nell’agone politico nazionale. Mandiamoci pure uno che non sa nulla di come funzionano le istituzioni e siamo a posto.
Io ho da sempre un’idea vecchia della politica, nella quale la selezione della classe dirigente comincia nei quartieri dove i giovani si devono sporcare le mani e poi piano piano vengono promossi e inseriti nelle istituzioni. E da lì si percorre una vera e propria carriera, perché la politica deve tornare a essere una professione. Una professione controllata, prima ancora che dalla magistratura, dal partito a cui appartieni. Un tempo questa forma di controllo funzionava. Parlo sempre della mia esperienza, ma fino a qualche anno fa in campagna elettorale si parlava dei programmi del Partito (che per noi aveva decisamente la P maiuscola), ai candidati era addirittura vietata la campagna elettorale personale. E per scoprire le mele marce non c’era bisogno di aspettare le sirene e gli avvisi di garanzia. Fino alla fine degli anni ’80, non secoli fa.
L’ho già scritto più volte e lo ripeterò fino alla noia: servono i partiti per far funzionare la democrazia. Partiti veri, con regole trasparenti, dove ci si confronta, ci si scontra e si decide. Si partecipa. Luoghi di formazione e lotta. Altrimenti continueremo a ritrovarci una stuolo di incompetenti ma onesti, farabutti molto capaci, ladri e pure inetti. E non so quale sia l’ipotesi peggiore. A leggere le cronache di questi giorni spesso le categorie si sovrappongono.
Siamo quasi a Pasqua e ormai avrete tutti la testa alla tornata di pranzi e scampagnate che vi aspetta fra poche ore. Quindi vi lascio prima del solito, questa settimana. Non fatevi fregare da questi ominicchi, e dalle vetrine scintillanti: scegliete un candidato capace, visto che c’è la preferenza multipla, fate almeno una coppia uomo donna, siate sordi agli appelli ai voti utili, il voto davvero utile è il voto scelto con la testa. Dal 27, poi, si potrà ricominciare a ragionare di politica.
Due o tre sassolini sul “Caso Marino” e non solo.
Il pippone del venerdì/96
La sentenza della Cassazione che ha assolto l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha alzato un vespaio di polemiche che hanno al centro il Pd, il suo comportamento di quegli anni, ma che in realtà pongono problemi di portata ben più ampia sul ruolo dei partiti, sul rapporto fra questi e gli eletti. E questo, secondo me, è uno dei nodi che negli anni scorsi non siamo riusciti a sciogliere e che hanno aggravato la crisi della sinistra. Una crisi di idee, ma anche, per così dire, organizzativa. Nel senso che un partito solido in crisi di idee può cavalcare l’ondata avversa, un partito in crisi di idee che non ha più fondamenta organizzative viene travolto e non riesce tornare a galla.
Ma andiamo con ordine. Cosa è successo in quegli anni a Roma, nel campo del centrosinistra? Una lotta di potere all’ultimo sangue, nella quale la parte fino ad allora storicamente minoritaria del Pd e ancora prima nei Ds, quella che fa capo all’ex presidente del partito Matteo Orfini, si trova in mano per la prima volta la chiave della stanza dei bottoni e ne approfitta per regolare i conti. La caduta di Marino, le famose firme dal notaio, sono semplicemente una conseguenza di questa guerra, il secondo stadio di una strategia complessa il cui obiettivo era un altro: Nicola Zingaretti. Quel Nicola Zingaretti che, non a caso, sul caso Marino non spese una parola, tutt’altro: i consiglieri della sua corrente si accodarono silenti a firmare le dimissioni. Troppo rischioso opporsi.
Renzi voleva mettere le mani su Roma, tramite il proconsole Orfini, e allo stesso tempo pianificò a tavolino una strategia che avrebbe portato i 5 Stelle al governo di Roma. Nei piani dello statista fiorentino, che di Marino non aveva la minima stima e che dava Roma comunque per persa, la caduta anticipata dell’amministrazione avrebbe messo in difficoltà i 5 Stelle che ne avrebbero pagato poi lo scotto a livello nazionale alle elezioni politiche che sarebbero arrivate dopo un paio di anni. Sappiamo come sono andate le cose: i 5 stelle primo partito, il Pd allo sbando dopo una scissione non solo con un pezzo di gruppo dirigente, ma con buona parte dei suoi elettori.
Allora che è successo a Roma? Arriva la famosa inchiesta di Mafia Capitale. Che poi ancora non si capisce quale fosse l’elemento mafioso. Sono passati pochi mesi dall’elezione di Marino a sindaco. Mesi complicati dove l’inesperienza e anche una certa convinzione eccessiva dei propri mezzi – diciamola così – aveva provocato errori gravi. Ora, intanto Marino è uno che non si fida di nessuno. E quindi tende a circondarsi delle stesse persone, un cerchietto magico. Cosa che non porta mai troppo bene. Poi si stabilisce uno strano rapporto con il Pd di Roma. Marino accetta una serie di assessori indicati dal partito, ma poi fa di testa sua e spesso sbaglia. Clamoroso il caso di Paolo Masini che viene mandato ai Lavori pubblici. Masini è forse uno dei migliori dirigenti e amministratori di quella stagione. Peccato che in vita sua si sia sempre occupato di scuola, sociale, cultura.
Quando scoppia il caso di Mafia Capitale, comunque, per settimane non si parla d’altro. Pagine e paginate sui giornali. Su un caso che, badate bene, se guardato in scala capitolina è davvero marginale. A Roma gli affari si fanno sul mattone, quelle due cooperative sociali (perché alla fine di questo si tratta) che avrebbero pagato mazzette, si spartivano le briciole. Il caso, tra l’altro, riguarderebbe più l’amministrazione Alemanno che quella Marino. Eppure un assessore finisce addirittura in galera, vengono coinvolti consiglieri comunali e regionali. Vengono costretti a dimettersi dagli incarichi istituzionali che ricoprono con una violenza giustizialista inaudita.
Parte l’assalto al fortino. Renzi, in una drammatica riunione, comunica al segretario romano del Pd, Lionello Cosentino, che avrebbe commissariato la federazione. Cosentino, pochi mesi prima, aveva vinto il congresso proprio contro il candidato renziano e contro quello di Orfini. Notare: nessun esponente della federazione del Pd viene coinvolto nell’inchiesta, che si ferma al livello amministrativo. Tra l’altro, come dire, diversi dei nomi che escono sono stati nel passato più vicini a Orfini che a Cosentino. Le cui proteste, si racconta di una riunione parecchio nervosa, non hanno comunque effetto. Il presidente del partito diventa commissario. Secondo lo statuto del partito dovrebbero restare comunque in carica gli organismi dirigenti. Ma Matteo 2 non se ne cura e procede a colpi di decreti. Affida allo stimatissimo professor Barca una indagine sullo stato dei circoli del partito. Una roba davvero ridicola, con alcuni ricercatori universitari che girano facendo domande ai militanti senza minimamente capire come funzionava quel partito. Caso strano, dai risultati, annunciati in pompa magna dallo stesso Barca alla festa dell’Unità, emerge una sorta di hit parade dei circoli. Caso strano, quelli vicini al commissario sono i più virtuosi. Alcuni diventano addirittura circoli mafiosi. Altri vengono classificati come sostanzialmente inutili. All’epoca facevo, ironia della sorte, il segretario di un circolo di pertferia, a Capannelle, e durante l’intervista spiegai che le nostre attività erano state soprattutto rivolte verso l’esterno, citai la proposta della “Appia antica station”, il treno che doveva portare i turisti alle porte dei due grandi parchi archeologici della Capitale, le feste del quartiere, le raccolte di firme su temi locali. Portai un “portfolio” corposo di manifesti, volantini, iniziative in piazza, i rapporti con il comitato di quartiere, che avevamo contribuito a ricostruire. Nella classifica finimmo fra i circoli definiti “identitari”, ovvero quelli che lavoravano soltanto sull’identità del partito, chiusi al quartiere. Mistero.
Comunque sia la storia va avanti: Orfini chiude un po’ di circoli antipatici, si inventa perfino storie assurde, come quella della sede di Corviale dove aveva trovato un cavallo. Mai successo. E poi il colpo di mano sul partito: contro tutte le regole statutarie i circoli diventano soltanto 15, uno per municipio, diretti da commissari di stretta osservanza, le sedi territoriali (quasi duecento all’epoca) diventano semplici appendici, senza più alcuna autonomia: né finanziaria, né di iniziativa politica. Un golpe. Difficile trovare parole diverse. Un golpe che, tranne rarissime eccezioni, subiscono tutti. Impauriti da un eventuale scontro con Renzi, allora all’apice del potere.
Sistemato il partito, Orfini passa al Comune. Dove, diciamolo, le cose non vanno proprio benissimo. La gestione dei rifiuti, alcune scelte discutibili sul piano urbanistico, le partecipate in cui non si assiste all’inversione di tendenza necessaria dopo i disastri di Alemanno, qualche gaffe del sindaco che se ne va in vacanza in momenti di gravissima crisi. Ora, in questi casi che si fa (e qui arrivo al discorso del rapporto fra un partito e i suoi eletti)? Secondo me si apre una riflessione nel partito e collettivamente si cerca di porre rimedio. Per governare Roma serve davvero un’intelligenza collettiva che vada al di là delle capacità del singolo. Serve un progetto e una forte unità di intenti. Il centro sinistra non aveva nessuna delle due. Che fa Orfini? Piazza due commissari in giunta: il vicesindaco Causi e l’assessore ai trasporti Esposito. Un disastro, soprattutto il secondo che più che lavorare pare remare contro, ogni giorno di più. Nel frattempo hanno anche la pensata, in accordo con il governo nazionale di commissariare per mafia il Municipio di Ostia, già commissariato in seguito alla caduta del presidente Tassone (detto per inciso: anche in questo non uno vicino a Marino, diciamo così). Un obbrobrio giuridico che aggrava la pressione sul sindaco. Si commissaria Ostia come vittima sacrificale per salvare Roma, si dice. E invece no.
E’ solo una tappa. Il cerchio intorno al collo dei sindaco si stringe con campagne di stampa vergognose. Si va dalla panda lasciata in divieto di sosta, ai famosi scontrini delle cene, denunciati dal grillino De Vito (ora sotto inchiesta per corruzione).
Ma Marino era così odiato dai romani come sostenevano Orfini e Renzi? Posto che non era un grande sindaco, anzi, la verità è che il Pd fece di tutto per ostacolarlo. Con la complicità di Sel che, per bocca del segretario nazionale arrivò a minacciare una mozione di sfiducia. Salvo poi rimangiarsi tutto, perché i militanti si accorsero della cazzata e minacciarono la rivolta. Marino si dimise. Fu costretto a dimettersi dall’azione combinata da Renzi e Orfini e dal silenzio terribile di tutti gli altri. Ci fu una reazione popolare a favore del sindaco. Molto limitata a dire il vero, poche centinaia di persone. Ci andai anche io, che pure non ero un fan di Marino. Perché capii che al di là dell’efficacia dell’azione amministrativa stavamo imboccando la strada sbagliata. Il sindaco eletto dai cittadini, con il 60 e passa per cento dei voti per altro, lo devono giudicare i cittadini. E poi, insieme a lui, sarebbe stata travolta una intera giovane classe dirigente sui cui avevamo scommesso, con punte di assolute eccellenza fra i presidenti dei Municipi. Per la prima volta nella storia li governavamo tutti. Da quella crisi, con una sinergia fra Governo, Regione e Comune si sarebbe potuti uscire. Il sindaco ritirò le dimissioni e Orfini, invece, di riportare la vicenda in consiglio comunale, dove un dibattito pubblico avrebbe dato modo di dare a tutti la possibilità di dire la propria, ordina ai consiglieri di dimettersi, firmando di fronte a un notaio. Deve anche ricorrere a un aiutino dalla destra perché fra gli alleati qualcuno si rifiuta. Non sarà ricandidato, come Mino Dinoi, ad esempio.
Io resto convinto che Marino si sia fidato troppo e che, quando scoppio Mafia Capitale, si sarebbe dovuto dimettere per far sciogliere il consiglio comunale e ricandidarsi presentandosi come il paladino della legalità, l’uomo che sfidava ancora una volta i poteri forti. Quei poteri forti che, al di là del giudizio su quegli anni, non lo hanno mai potuto sopportare.
Insomma: fine 2015, seconda parte del golpe romano. Cade il Comune, si torna alle elezioni. Che poi, per i protagonisti di quella vicenda è stato l’inizio della serie di sconfitte che ha portato alla situazione attuale. Come dire: le congiure di palazzo non portano bene a chi le architetta.
Il Paese dei timbri, delle carte e del protocollo.
Il pippone del venerdì/95
Ci sono settimane in cui il pippone mi viene quasi naturale e settimane in cui invece faccio una gran fatica a scegliere l’argomento. Ora, la tentazione di appuntare ancora l’attenzione sulle emozionanti vicende della sinistra nostrana, lo confesso, sarebbe fortissima.
E’ stata una settimana densa di avvenimenti epocali. Riassumiamo quelli essenziali. I militanti di Diem25, movimento nato per cambiare l’Europa, hanno deciso di non aderire a nessuna delle liste nascenti per le elezioni di maggio, le europee. Si concentreranno sulle amministrative. Intanto nella consultazione lanciata da Rifondazione e Sinistra italiana per la scelta del simbolo, i militanti hanno scelto un logo dove sono presenti anche le rondini di Diem25. Come se la caveranno adesso non si sa, i grafici avranno ulteriore lavoro. Quelli di Possibile, invece, ci saranno alle europee, insieme ai Verdi. Il loro simbolo lo presentano proprio oggi. Lo disegnerà dal vivo un writer, speriamo non su un muro. Di Potere al popolo, lo confesso, ho perso le tracce. Articolo Uno, che si appresta a celebrare il suo congresso con i delegati eletti per il congresso di un anno fa, continua a trattare con Zingaretti. Secondo l’ex ministro Orlando, apprendo dai giornali, la presenza di candidati bersaniani nella lista Pd-Siamo Europei, avrebbe carattere “tecnico”, nessun accordo politico perché altrimenti si incazzano i renziani. Intanto Zingaretti – vale la pena ricordarlo – continua a esprimere pubblicamente posizioni opposte a quelle di Articolo Uno, dalle riforme costituzionali, alla patrimoniale, ai diritti dei lavoratori. Quisquilie, qua si discute di candidature non di politica. Il simbolo, in ogni caso, non avrà alcun riferimento alla loro presenza.
Capirete che la tentazione di discettare su questi argomenti di capitale importanza è fortissima. Resisterò. Come credo di resistere anche alla tentazione di parlare di quanto successo a Torre Maura, periferia romana, con un quartiere intero, o almeno buona parte di esso, che si ribella alla presenza di una settantina di rom. Ho già scritto appena pochi giorni fa di come la guerra fra ultimi e penultimi – la faccio breve – sia un espediente dei potenti per tenere buone le masse popolari. La sinistra farebbe bene a sporcarsi le mani dentro queste contraddizioni, ma, salvo rare e positive eccezioni, preferisce pontificare da qualche salotto su quanto siano fascisti quelli che protestano. Chiediamoci, invece, perché ci siano i fascisti lì, insieme ai cittadini e non ci siamo noi. Quando qualcuno si porrà questa domanda avremo un terreno di confronto comune. Il resto, la sociologia da bar sport, francamente mi interessa poco.
Anche le contorsioni del governo francamente sono di una noia mortale. E’ tutto un gioco delle parti, dove si fa finta di litigare su qualcosa per distogliere l’attenzione dalle stangate che ci attendono e che cominciano a dispiegare i primi effetti. I pensionati già da questo mese. Gli basterà leggere la cifra dell’assegno. Per tutti gli altri bisognerà attendere il dopo europee quando, purtroppo, bisognerà fare i conti con una crescita ben al di sotto di quanto indicato nella manovra economia. E se non si cresce le entrate sono meno e le spese di più. Indovinate dove si andrà a mettere le mani? Nelle tasche di un ceto medio sempre più impoverito, ma alla fine sempre l’unico in grado di pagare i debiti contratti dai governi vari.
Certo, potrei parlare di quello che succede a livello internazionale, dove i socialisti spagnoli paiono in ripresa, in Slovacchia vince un modello nuovo di sinistra, nei bigottissimi Usa viene eletta una donna lesbica sindaca di Chicago. Una delle città più grandi, non un sobborgo sperduto. Io sospetto che i successi di Sanders abbiano fatto da ariete, aprendo la strada a una nuova generazione di militanti democratici, che non ha paura a professare idee socialiste. L’America patria dei moderati li accoglie adesso con curiosità e interesse. Perfino la Turchia dà segni di risveglio, con le elezioni amministrative che segnano una netta sconfitta dei candidati sostenuti da Erdogan. C’è perfino un sindaco eletto dal Partito comunista. Non era mai successo.
E invece no, vi voglio raccontare in breve, una mia piccola disavventura burocratica, con la Regione Lazio. La vicenda è questa: nel 2011 mi rubano la moto, seguo la prassi persecutoria prevista per questi casi, fatta di denuncia ai carabinieri, dichiarazione di perdita di possesso al Pra (a pagamento) e nel 2014, puntuale mi arriva una cartella esattoriale che mi invita a pagare il bollo. Smadonnando non poco, su internet trovo i moduli per presentare la “memoria difensiva”, si può fare via mail, via fax e via pec. Nel dubbio la invio, con allegati tutti i documenti necessari, in tutte e tre le maniere. Non si sa mai. Non mi risponde nessuno e, ingenuo, penso che sia tutto a posto. Pochi giorni fa, Agenzia delle entrate mi avvisa che se non pago la cifra del bollo, più sanzioni e interessi, avvieranno le procedure esecutive per il recupero del credito. Se si vogliono informazioni bisogna parlare con chi ha emesso la cartella perché loro sono meri esattori. Sul sito della Regione trovo un numero, mi faccio la consueta mezz’ora di attesa e risponde una gentile impiegata che verifica. Effettivamente è tutto a posto, ma devo recarmi nei loro uffici di persona. E allora, con grande pazienza, mi prendo un giorno di ferie e vado. Una decina di persone in fila, 5 impiegati allo sportello. Pochi minuti, insomma. Morale della favola, una signora molto gentile si prende la documentazione verifica le mie ragioni sul pc e ritorna con un modulo da riempire. E’ quello della memoria difensiva. Uguale. Le spiego che l’ho già presentata, le faccio vedere le ricevute. E lei, ineffabile: “Ma qui da noi?” No, con gli strumenti indicati sul sito. Lei sorride e ripete: “L’ha presentata qui da noi?”. Mi arrendo, prendo i moduli, dove lei, benemerita, ha aggiunto “urgente”, a mano, vado al protocollo dove riempio un altro modulo e mi ridanno il tutto con un bel timbro. Ora la solerte impiegata dovrà lavorare la pratica e poi mi arriverà lo sgravio a casa, per posta. Sperando che sia davvero la fine e che non debba poi portare il tutto all’Agenzia delle entrate.
Ecco, carta, timbri, protocollo, postino. Non ce la possiamo fare.