Calenda e altre disgrazie.
Il pippone del venerdì/85
Come di consueto aspetto sempre qualche giorno prima di provare a ragionare sui fatti della politica nostrana, intanto perché a caldo si ragiona sempre male, ma anche perché è sempre meglio vedere come vanno a finire queste storie. Parlo, ovviamente del “listone” proposto da Zingaretti e Calenda. Dico subito che lo ritengo non solo inutile, ma anche dannoso. Provo a spiegare perché.
D’Alema prima e Bersani poi, con accenti diversi ma in maniera sostanzialmente molto simile, hanno spiegato che, secondo loro, la ricostruzione della sinistra italiana passa per un “rimescolamento” complessivo del campo da gioco. Bersani l’ha detta benissimo: “Che i progressisti stiano con i progressisti e i liberaldemocratici con i liberaldemocratici”. E questo non tanto e non solo in prospettiva elettorale per le europee, ma proprio come modello per ricostruire dalla basi la nostra presenza nella società italiana. Calenda e Zingaretti, al contrario, propongono semplicemente di “nascondere” il Pd dentro un’alleanza con qualche cespuglietto (dalla Boldrini a Pizzarotti) non tanto per battere i populisti, perché comunque una lista del genere difficilmente oltrepasserebbe il 20 per cento, ma solo per garantire a quello che ormai è a un passo dalla segreteria del Pd, di superare il 18 per cento preso dal partito a trazione renziana e poter rivendicare, malgrado il poco tempo a disposizione, di aver portato il Pd a una timida ripresa.
Insomma, nessuna ridefinizione del campo, semplicemente un tentativo di sopravvivenza. Che avrebbe innanzitutto il merito, agli occhi dei proponenti, di tenere uniti i democratici, visto che taglierebbe automaticamente le gambe a una ipotetica lista di Renzi. E in più darebbe un po’ di visibilità alla sinistra di Boldrini e Smeriglio, su cui il presidente del Lazio fa già conto per aumentare il suo consenso alle primarie di marzo. Alleati così preziosi andranno pur premiati con un seggio in Europa.
Pare evidente come le due opzioni siano non solo divergenti, ma addirittura opposte. Non si capisce bene, dunque, il perché dei vari entusiasmi con cui il manifesto per l’Europa di Calenda è stato accolto anche a sinistra. Ancora una volta, tra l’altro, si commette l’errore di pensare soltanto al contenitore invece che ai contenuti, nella vana speranza, forse, che gli elettori non riconoscano le stesse facce dietro le nuove maschere. Se, in più, individuiamo nell’esistenza stessa di un partito per sua natura “ambiguo” come il Pd l’ostacolo più grande nella ricostruzione necessaria della sinistra, è chiaro come questa proposta vada combattuta.
Resto convinto che abbiamo la necessità, innanzitutto, di avanzare una proposta agli italiani, ma più in generale agli europei. Una proposta che dica intanto che siamo per il superamento di una forma di Unione dominata dai governi e in cui gli organismi assembleari eletti democraticamente contano davvero poco. Abbiamo fatto l’Europa monetaria, ma con l’allargamento a 28 siamo andati addirittura indietro nella costruzione di forme democratiche di governo e decisione. Quale Europa proponiamo, con quali strumenti. Siamo d’accordo ad esempio sulla necessità di un fisco comune? Di una politica estera europea? Potrei continuare, ma non è questo, ovviamente, il luogo. Dovremmo, per farla breve, tornare a svolgere una funzione se non trainante, quanto meno “concorrente”, insieme agli altri soggetti più avanzati della sinistra Europa. Ma ce lo dobbiamo far dire dal timido ex ministro Orlando che il candidato proposto dai socialisti alla presidenza della commissione non va bene? Ce lo deve spiegare lui che bisogna puntare all’alleanza con forze alternative a quelle tradizionali per avere una qualche possibilità di successo?
Il “listone Pd senza Pd” verrà inevitabilmente visto come l’estremo tentativo delle élite italiane di mettere i bastoni fra le ruote al “cambiamento” rappresentato sempre più da Salvini. Non c’è scampo, basta notare che fra i primi firmatari ci sono uomini forti di Confindustria, ex ministri renziani. Il “potere” decadente, insomma. Perfino moderati come Letta e Prodi hanno avanzato qualche timido dubbio. Noi facciamo fatica ad avere una voce chiara e forte. A essere cattivi ci sarebbe da pensare che i nostri dirigenti stiano ancora una volta cercando lo schema che consenta loro di sopravvivere e di continuare ad avere qualche incarico. Lo scopo mi pare sempre più essere segretari di qualcosa, siano anche quattro gatti.
L’ho già scritto, ma mi ripeto: non è tanto un problema di rinnovamento di classe dirigente, perché gli sconfitti del 4 marzo sono quei quarantenni che non hanno saputo fare un fronte generazionale e continuano a dividersi per avere un pezzettino di visibilità. Ogni volta che si affaccia un commensale, invece di aggiungere un posto al tavolo comune si apparecchia un tavolino nuovo. E poi ci stupiamo se passiamo dagli entusiasmi di pochi mesi fa alle assemblee di questi giorni che saranno anche piene, ma in sale che contengono poche decine di persone, sempre le stesse, sempre più stanche. Ormai potrei fare la cronaca degli interventi senza manco ascoltarli. Anche il disastroso tentativo di Laforgia e soci non può che essere descritto inserendolo in questo schema. Si è partiti strumentalizzando il nobile tentativo di alcuni comitati di base che chiedevano unità si finisce per cercare di creare un altro soggetto politico che esiste, forse, appena in un paio di Regioni. Tutto per soddisfare la vanità di un presunto leader. Speriamo che non ne emergano due, altrimenti si ricomincia la giostra.
E anche il tentativo lanciato da Articolo Uno, basato se non altro su basi ideali e programmatiche un po’ più solide, rischia di incagliarsi nelle secche della delusione. Troppo forti le aspettative di un anno fa, ancora più grande la delusione. Chi, come me, in maniera un po’ masochista, frequenta ancora le assemblee di base, non può non accorgersi della stanchezza, delle defezioni continue, delle volontà sempre più fiaccate. E allora che si fa? Secondo me l’unica strada sarebbe ancora quella di metterli seduti attorno a un tavolo, tutti quanti, uscire dalla sala, chiudere la porta e obbligarli a mettersi d’accordo. Non riuscite a fare un partito? Partiamo da una forma associativa permanente, una federazione. Non riuscite a individuare un leader? Fate a turno, sei mesi per uno. Fate una segreteria collegiale, dividetevi i compiti. Anche perché, nel frattempo, non ci sono soltanto le europee. Alle regionali in Sardegna e Abruzzo si presenta Liberi e Uguali. E alle amministrative che cosa pensiamo di combinare? E se provassimo a presentarci con lo stesso simbolo per due elezioni consecutive, così tanto per vedere l’effetto che fa?
La colpa della schiavitù è degli schiavi.
Il pippone del venerdì/84
Arrestati in sei perché avevano creato una finta cooperativa con lo scopo sociale di sfruttare il lavoro dei migranti, 400 persone mandate a lavorare nei campi per dodici ore al giorno, con paghe da fame. Ovviamente senza alcun diritto. Tutti italiani gli arrestati, fra cui anche un sindacalista della Cisl e un ispettore del lavoro. Più di cinquanta gli indagati. La notizia l’avete sicuramente letta tutti, compreso l’agghiacciante commento di Salvini: per il ministro degli interni si tratta “di un business che prospera grazie all’immigrazione clandestina”. Insomma la colpa è dei migranti. Non una parola sui nostri connazionali. Quelli sono elettori, magari anche della Lega che da queste parti continua a fare proseliti. Vanno comunque coccolati.
Ero ragazzino quando come Federazione giovanile comunista organizzavamo i campi di accoglienza a Stornara, in provincia di Foggia. Si parla di trent’anni fa. Già allora erano migliaia i migranti che d’estate popolavano le campagne del sud. Anche allora sfruttati, resi schiavi dalle organizzazioni criminali. Noi provavamo a dargli un posto decente per dormire, lavarsi, qualche pasto caldo. Sono passati 30 anni e non solo la situazione è peggiorata, ma abbiamo un ministro dell’Interno per cui la colpa della schiavitù è degli schiavi.
Ora, quelli più bravi di me a fare politica, diranno che se si parla troppo di questi argomenti e si finisce per fare il gioco di Salvini e soci. Ma come si fa a stare zitti? Secondo l’ultimo ”Rapporto agromafie e caporalato” pubblicato l’estate scorsa dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura vale 4,8 miliardi di euro mentre 1,8 miliardi sono di evasione contributiva. I lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale sono 430 mila: di questi, più di 132 mila sono in condizione di ”grave vulnerabilità sociale” e ”forte sofferenza occupazionale”. Una delle poche cose buone della scorsa legislatura è stata proprio la legge contro il caporalato, che ha permesso l’operazione di polizia da cui sono partito. Speriamo che non la demoliscano. Questi dati ci raccontano con buona approssimazione il Paese che siamo diventati. Un Paese che ha paura dei migranti, chiede a gran voce che vengano cacciati, in cui però un bel pezzo di economia si regge proprio sulla loro presenza e sullo sfruttamento selvaggio della mano d’opera. E non c’è solo l’agricoltura ovviamente.
La colpa è della disperazione, ministro Salvini. E la colpa è di quella cultura ipocrita che tanto sta contribuendo a diffondere. La colpa è di quelli che vogliono chiudere i porti, costruire i muri alle frontiere. Che poi spesso non ci si accorge che è come se si volesse svuotare il mare con un cucchiaino da caffè. E troppo spesso i benpensanti difensori di non si capisce bene quale italianità sono quelli che poi caricano i loro furgoni di disperati e li portano nei campi. Sono quelli che gridano contro “gli zingari ladri” e poi li usano per smaltire rifiuti tossici.
Possiamo tacere di tutto questo perché se si affrontano questi temi si perdono voti? Oppure dobbiamo dire con forza che l’unico modo per combattere l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento è proprio creare canali legali con cui si possa arrivare in Italia, senza passare per la mafia degli scafisti e senza finire in mano alla mafia dei caporali che gestiscono la mano d’opera nei campi e nei cantieri edili. La mattina lungo le strade principali di Roma, ma penso che succeda un po’ ovunque, ci sono centinaia di persone che aspettano sui marciapiede che arrivi il caporale e li carichi sui furgoni. Possiamo continuare a girare la faccia dall’altra parte?
Come è noto io sono contro ogni tipo di frontiera e trovo assurdo che mentre i capitali circolano senza alcun limite le persone siano ancora ancorate al proprio luogo di nascita. Trovo assurdo che una mera casualità, ovvero nascere in un paese ricco, sia la condizione prima per vivere in maniera decente. E’ il primo furto di questo mondo ingiusto organizzato secondo le regole del capitalismo. Viene ancora prima della proprietà privata. “Tu non puoi stare in questo Paese perché non sei nato qui”. Possibile non percepire l’assurdità di questa affermazione? Nasciamo tutti, nudi, sullo stesso pianeta. E dovremmo avere, tutti, il diritto di cambiare paese, non solo per necessità, ma anche solo “perché ci va”, proprio come afferma Giorgia Meloni pensando di dire una cosa assurda.
Poi, certo, è chiaro che non possiamo parlare soltanto di immigrazione tutti i giorni per 24 ore al giorno. Bisogna trovare gli strumenti per garantire diritti sociali e civili a chi sta in nel nostro Paese, al di là della nazionalità e del colore della pelle. Altrimenti Salvini e quelli come lui continueranno ad avere gioco facile nel proporre questa guerra fra poveri, in cui la colpa del fatto che uno sta male è sempre di quello che sta ancora peggio di te. E in questo polverone quello che una volta si sarebbe chiamato “il nemico di classe” se la ride allegramente e continua a diventare sempre più ricco.
Che nessuno si scandalizzi, e la finisco qui, per quello che fanno gli ultras allo stadio, sono soltanto la faccia più cruda della nostra società. Anzi: almeno loro dichiarano apertamente il loro razzismo. Non piangono per i bambini africani con la pancia gonfia che si vedono in televisione salvo poi dire che “devono stare a casa loro. Lo stadio è solo lo specchio di quello che siamo diventati. Inutile chiudere le curve, qua toccherebbe chiudere l’Italia.
E’ ora di premere sull’acceleratore.
Il pippone del venerdì/83
Passate le feste, oltre che con qualche chilo in più, ci ritroviamo tutti con parecchie certezze in meno. Quello che sembrava un asse di ferro fra Salvini e Di Maio, di giorno in giorno, si mostra in tutta la sua fragilità. E’ un po’ la storia della coperta troppo corta: ognuno cerca di tirarla dalla sua parte e i sondaggi ondeggiano a seconda del tema della settimana. La Lega scende? Salvini alza la voce sui migranti. E anche la “sconfitta” subita nei giorni scorsi, quando alla fine ha dovuto ingoiare un accordo sulla vicenda dei 49 disperati rimasti in mare per settimane, in realtà conferma il suo profilo dell’uomo inflessibile. Che siano gli altri che scendono a compromessi, lui dice sempre no. E sono sicuro che i prossimi sondaggi registreranno il favore di un numero crescente di cittadini. Il tema immigrazione, anzi più che il tema la percezione che ne abbiamo, continua a essere terreno fertile per Salvini e soci. Siamo razzisti? Non so, di sicuro temiamo le differenze, un bel paradosso se ci pensate bene: l’Italia nasce come paese meticcio per eccellenza, fin dai tempi dell’impero romano. E non potrebbe essere differentemente vista la nostra posizione centrale nel mediterraneo. Dire “chiudiamo i porti” in un paese accerchiato dal mare è evidentemente una bestialità, ma ci vorrà tempo per capirlo.
Detto questo, comunque, malgrado alzino polveroni per coprire la realtà, presto toccherà fare i conti con l’economia che non tira, una nuova recessione alle porte, i provvedimenti promessi che non arrivano. Il bluff di quota cento e del reddito di cittadinanza sarà evidente. Per non parlare dell’opportunismo dei 5 Stelle. Di Maio sta facendo da uomo di governo l’esatto contrario di quello che predicava dall’opposizione. Salva le banche, fa gasdotti, dà il via libera alle trivellazioni nello Jonio. Solo per citare i titoli dell’ultima settimana.
Non credo che le contraddizioni porteranno all’esplosione di una crisi di governo in tempi brevi, troppo alta la posta in gioco per entrambi gli attori principali della commedia. Più probabile che si attendano le elezioni europee, che saranno una sorta di grande sondaggio sul campo. Se i risultati faranno emergere la possibilità di una maggioranza alternativa, in particolare un classico centro destra, Salvini non ci penserà due volte e scaricherà gli ingombranti alleati, pronto a diventare il protagonista assoluto di un governo con gli alleati di sempre.
In tutto questo non possiamo stare a guardare. Secondo me ci sono due eventi da seguire con grande attenzione. Il primo è il congresso della Cgil, dal 22 al 25 gennaio ci sarà l’assise nazionale che concluderà questo lungo percorso del più grande sindacato italiano. Ora, non ci sarà mai – malgrado secondo me resti la strada maestra per ricostruire una forte rappresentanza della sinistra – un impegno diretto della Cgil in politica. La tradizionale separazione e autonomia del sindacato rispetto ai partiti ha retto in stagioni in cui era molto più difficile, figuriamoci se verrà meno adesso. Ma un sindacato rinnovato e attento a quello che succede nella sinistra serve ai lavoratori, aiuta a costruire un’opposizione più forte e a lavorare per la costruzione di uno schieramento realmente alternativo. La presenza di forti corpi intermedi è la vera cura contro il razzismo e i populismi vari.
Ovviamente in questo senso non si può che auspicare un accordo che porti a una segreteria unitaria guidata da Landini. Una vittoria di Colla, sostenuto sostanzialmente dai pensionati, potrebbe perfino avviare un processo di disgregazione della Cgil, sicuramente non sarebbe accettata dalla grande maggioranza degli iscritti. Intanto per il modo in cui è stata proposta la sua candidatura: non con un documento alternativo, ma, nella sostanza, approfittando di un sistema congressuale che si basa su complicati equilibri fra i delegati. E poi perché, magari a torto, Colla viene rappresentato come la lunga manus del renzismo che cerca di prendere il controllo del sindacato dopo aver lavorato per anni per rendere marginale il suo ruolo, quello della Cgil in particolare. Se ne parla ancora troppo poco di questo congresso, un grande processo democratico che nei mesi scorsi ha coinvolto milioni di lavoratori e pensionati. La passione italica per la notizia secca non aiuta a seguire i percorsi lunghi e complicati. Dovremmo provare ad accendere più di un riflettore sulle scelte che saranno compiute nei prossimi giorni.
L’altro fronte da seguire è il processo di costruzione di una forza di natura socialista nella sinistra italiana. Fronte essenziale se è vero che una parte dell’elettorato grillino manifesta un disagio crescente verso gli atti di questo governo. Diventa ancora più urgente. Il “mi sa che ho fatto una cazzata” degli elettori di sinistra che hanno scelto i 5 stelle non si trasforma automaticamente in un ritorno a casa. Soprattutto se una casa non esiste. Il Pd, ancora dominato nei fatti da Renzi, di sicuro non sarà un porto attrattivo per questi migranti della politica. E neanche una vittoria di Zingaretti alle prossime primarie, secondo me, rappresenterebbe automaticamente un vestito nuovo e convincente per un marchio consumato dalle politiche degli anni scorsi. Del resto il presidente del Lazio, che adesso invoca discontinuità rispetto al passato, non è che sia proprio stato un oppositore di Renzi. Anzi, ne ha sposato tutte le scelte principali, speso con il silenzio, altre volte con un esplicito consenso.
La crisi di consenso di Di Maio e soci, insomma, ci pone l’urgenza di accelerare. Tanto più se, come pare di capire, il ritorno in campo di Di Battista cercherà di creare una sorta di “partito di lotta e di governo”, in cui si proverà a far ingoiare grossi rospi all’elettorato grillino tradizionale puntando sull’appeal movimentista del figliol prodigo appena tornato dal suo viaggio in Sudamerica.
Accelerare per fare cosa? Fallito il progetto di Liberi e Uguali, abbiamo il dovere di costruire una forza politica, di natura socialista, che superi le difficoltà del momento e ci faccia stare in campo. E’ necessaria intanto per dare una alternativa ai delusi, ma anche per pensare, dopo le europee alla ricostruzione di un campo ampio che metta insieme i progressisti e venga percepito come alternativa credibile alla destra. La dico chiaramente: anche con il Pd derenzizzato che tutti ci auguriamo di trovare dopo le elezioni, non cesserà la necessità di dare rappresentanza politica alla sinistra italiana. Perchè il Pd resterà quello di Franceschini e Gentiloni.
E allora dobbiamo fare in fretta. Il documento lanciato da Mdp con l’assemblea di metà dicembra rappresenta una buona base di discussione. Si avvii, finalmente, la costruzione di un partito, con iscritti, sedi fisiche, reti di comunicazione classiche e virtuali. Proviamo a sperimentare forme nuove di partecipazione diretta, di organizzazione orizzontale e non tradizionale. Cerchiamo di recuperare l’impegno dei tanti compagni che avevano visto in Liberi e Uguali una speranza e che adesso sono tornati a chiudersi nel pessimismo (con molte ragioni). L’entusiasmo non c’è, non nascondiamolo. Troppo tempo è trascorso a inseguire i tentennamenti di leader senza popolo.
E’ tempo di ripartire dai fondamentali. Una forza socialista. Sarebbe di sicuro un buon inizio.