Cinquantuno sfumature di rosso.
Il pippone del venerdì/78
Un autorevole commentatore alcuni giorni fa ha spiegato che la crisi della sinistra sta tutta nel non aver metabolizzato la trasformazione del sistema dei partiti in sistema dei leader. Ovvero, la società di oggi sarebbe di per sé incompatibile con un sistema politico basato sulla partecipazione, la semplificazione della quale siamo tutti vittime nei campi più disparati richiederebbe la delega totale a un leader. E noi invece, secondo l’autorevole commentatore, ci ostiniamo a pensare di organizzarci in partiti.
A dire il vero, a me pare che la sinistra questo cambiamento lo abbia metabolizzato da tempo, semmai viene da pensare che non si metta d’accordo sul leader. In questi giorni sono in corso almeno quattro processi costituenti di altrettante formazioni politiche che potranno comodamente incoronare altrettanti fascinosi segretari. Tutti e quattro i “cantieri” saranno aperti, unitari, inclusivi, perché “non vogliamo fare il solito partitino del 3 per cento”. Il sindaco di Napoli, in una intervista dei giorni scorsi, ha spiegato addirittura che fare il leader è il suo destino naturale e che si candiderà a tutte le elezioni prossime venture. Abbiamo trovato un nuovo Lenin e non ce ne eravamo accorti. Che culo!
Quelli messi peggio, anche se nessuno ormai si accorge di loro, sono i compagni di Possibile, passati dalla battaglia senza se e senza ma contro Zingaretti a fare da comparsa in una lista (sempre unitaria, aperta, inclusiva e che non sarà un partitino del 3 per cento) capitanata da Boldrini e Smeriglio, sotto l’ala protettiva proprio del presidente della Regione Lazio. L’ala sinistra della futura alleanza immaginata dall’aspirante segretario piddino. Poco più che una lista civetta, insomma. Chissà come mai quelli che sono per la lotta dura senza paura me li ritrovo sempre a fare da giullari a corte.
I moderati, dal canto loro, non stanno messi meglio: il Pd ha addirittura sette candidati segretari. Tutti aspiranti leader. Dei quali si conosce a malapena la faccia, ma non è dato sapere quali siano le ragioni programmatiche e ideali che li hanno spinti al grande passo. Che poi, io non sono un fautore delle quote rosa, ma che diamine: fra costituenti, congressi e convegni, stiamo parlando complessivamente di una quindicina di persone: tutti uomini, salvo l’ex presidente della Camera. Quasi che il concetto di leader, declinato nella forma contemporanea, fosse solo possibile al maschile.
Di sicuro la sinistra è stata protagonista della fine del sistema dei partiti in Italia. Anzi ne siamo stati l’avanguardia. Fin dall’89. Per me la data maledetta è sempre quella in cui Achille Occhetto stabilì che la risposta alla crisi del comunismo mondiale era sciogliere il Pci e trasformarlo in partito qualsiasi. Da lì è venuta meno una comunità, una maniera di stare insieme, di condividere non solo la passione politica ma un pezzo della propria vita. Certo, poi negli ultimi anni il sassolino rotolando lungo il fianco della montagna è diventato valanga e ha travolto tutto. Ma l’origine è sempre quella lì.
E le stesse divisioni, anzi ormai si dovrebbe parlare di moltiplicazioni a ripetizione multipla, avvenute in questi anni, in realtà hanno origine proprio da quel vulnus: se manca una base ideale comune non è possibile neanche rinunciare a un pezzo della propria visibilità e identità personale nel nome del bene collettivo. Anzi, lo stesso concetto di bene collettivo vacilla e viene sostituito sempre più dal mero tornaconto personale. Temo che le discussioni dentro Liberi e Uguali di questi mesi siano proprio la rappresentazione estrema di questo: ci si divide per preservare il proprio pezzettino di potere, che, per quanto sia piccolo, non si è disposti a cedere. Manca una base ideale, manca un figura capace di mettere tutti d’accordo, perché restare insieme? Ognuno a casa propria, poi ci si aggregherà di volta in volta nel tentativo – vano – di superare qualche sbarramento elettorale. La cosa più divertente di tutte è che tutti quelli che si candidano lo fanno sempre dicendo che bisogna superare “l’io e tornare al noi”. Intanto si candidano, però.
Resta da capire se davvero sia proprio impossibile fare un partito-comunità adesso e ci si debba per forza accontentare di battere le mani a qualche polletto allevato in batteria che si crede un gallo di qualità. Io resto convinto che si debba tornare all’antico, sia pur innovando le forme dell’organizzazione, i modi di partecipazione e il meccanismo di selezione della classe dirigente. Per questo credo che valga la pena di continuare a spendersi. Certo, non è una sfida che possiamo vincere oggi. Ormai toccherà farsene una ragione. Sarò al teatro Ghione domani mattina, sabato 24 novembre, per l’appuntamento organizzato dai comitati di Liberi e Uguali. E mi auguro non solo che vada bene, ma anche che gli aspiranti leaderini si rendano conto che insieme si sta meglio, soprattutto se bisogna costruire un argine a quello che ormai sembra un fiume in piena, l’ascesa della nuova destra di Salvini e soci.
Credo però – sarò anche pessimista, a me sembra sano realismo – che sia inutile farsi troppe illusioni. Basta girare un po’ e ci si accorge che ormai sono scattati gli ultras delle varie parti in causa e quanto parte la rissa la cosa migliore da fare è tenersene accuratamente alla larga. Intanto è bene continuare a coltivare i semi, le reti che ognuno di noi ha costruito in questi mesi. Che le diverse sigle non siano scuse per perdersi di vista. Perché guardate che, i leaderini se ne accorgeranno, non sarà facile farci tornare docili docili in casette che non sentiamo più nostre.