La fase 2 mi sembra peggio della fase 1.
Il pippone del venerdì/140
Francamente mi sarei aspettato che questa prima riapertura che viviamo ufficialmente da ormai una settimana portasse qualche giornata di sana “leggerezza”. Dico ufficialmente perché in realtà da quando il presidente del Consiglio aveva annunciato i provvedimenti che sarebbero entrati in vigore dal 4 maggio gran parte del popolo italiano ha saltato a piè pari la data e dal giorno dopo era tutto un via vai di persone.
Niente di male, per carità. Stare in casa per quasi due mesi è stato pesante e anche i controlli delle forze dell’ordine si sono gradualmente allentati.
Mi aspettavo però anche un altrettanto graduale allentamento di quella insana sorveglianza social (non è un refuso intendo proprio social, nel senso di sorveglianza che viene applicata attraverso un uso smodato della pubblica denuncia on line) che ci ha afflitto dall’inizio della quarantena. E invece no, cambiano gli obiettivi, perché ampliandosi la platea dei possibili bersagli si è un po’ attenuata la pressione sui proprietari di cani e sui runner, restano i toni apocalittici. Nel mirino adesso ci sono principalmente le famigliole che si permettono di portare i bambini a passeggiare, per giunta senza mascherina. Ci farete tornare tutti in quarantena rigida, dovete stare a casa. Questo il messaggio che gira di chat in chat, di gruppo in gruppo su Facebook. A parte il fatto che se ce ne restiamo tutti in casa non si capisce bene quale sia la differenza con la fase 1. A parte il fatto che su larghe fette (per fortuna) del territorio nazionale la mascherina va portata solo in ambienti chiusi come mezzi di trasporto e negozi. A parte tutto questo, dicevo, viene sempre da chiedersi come sia possibile che un popolo noto in passato per i suoi grandi slanci solidali sia diventato così cattivo e pronto allo schiaffo invece che a tendersi la mano. Per non parlare della facilità con cui si continua a dar credito alle teorie più strampalate.
Certo, c’è una base “sociologica” di questo comportamento. La paura, la tendenza ad aggrapparsi alle possibilità più assurde per allontanare il pensiero e l’immagine della morte, così presente in questo periodo: ci sta tutto. E non è che gli italiani siano un caso unico. Basta pensare che nella patria della tecnologia c’è chi ancora da retta alle teorie strampalate di Trump, per avere un’idea dell’estrema fragilità davvero globale del genere umano.
In Italia, però, ci mettiamo del nostro. Siamo l’unico paese al mondo dove nel pieno di una crisi davvero senza precedenti negli ultimi cento anni, sui giornali ci si diletta a parlare della possibilità di una crisi di governo. Ora, che alcuni ministri siano del tutto inadeguati si sa. Basta pensare alla confusione che causa ad ogni intervista sulla scuola l’ineffabile Azzolina per farsi un’idea. Ma per fortuna, almeno nei ruoli chiave per gestire l’epidemia ci sono politici – e sottolineo politici – preparati e con un altissimo senso delle istituzioni. Merce rara di questi tempi. L’ho già scritto ma vale la pena ripeterlo, basta ricordare che al posto di Conte potremmo avere Salvini per chiudere ogni discussione.
E, invece, no. Si continua di giorno in giorno nell’azione di logoramento continuo. Ecco, se una vera colpa questo governo ce l’ha, è quella di non aver vietato i sondaggi politici almeno fino alla conclusione dell’emergenza. Forse starebbe più tranquilla l’opposizione, farebbe il suo lavoro senza aizzare improbabili folle. Forse starebbe più tranquilla quella parte della maggioranza che ancora in questa settimana continua a cercare soltanto di avere più visibilità, preoccupata di qualche decimo di punto in meno nel potenziale consenso elettorale.
Ora, è solo una battuta, ma per chi come me sostiene da sempre che una classe dirigente non può governare con i sondaggi alla mano è logico pensare che in una grave situazione di crisi l’unico faro dovrebbe essere la Costituzione, dove è scritto chiaramente che la salute è al primo posto.
Ultimo punto, assai impopolare e poi vi lascio a questa calda giornata prefestiva. La burocrazia. Tutti, come al solito a tuonare contro. Senza accorgersi che il problema della gestione dell’emergenza non è la troppa burocrazia, ma l’aver smantellato sostanzialmente l’apparato statale nella foga liberista degli scorsi anni. Ora. Avremo anche procedure farraginose e complicate. Ma questo è dovuto al fatto che si è proceduto alla distruzione dell’apparato, assoggettandolo al potere politico, affidando al privato la gestione di servizi essenziali, distruggendo un sistema che aveva una sua funzionalità con il nulla.
Per questa settimana m fermo qui. E, per favore, se proprio dovete stare in casa, almeno evitate di sputare sentenze su chi sceglie di farsi una passeggiata al sole, a debita distanza gli uni dagli altri. Siete più contagiosi voi del coronavirus.
L’opposizione che servirebbe all’Italia.
Il pippone del venerdì/139
Anni fa, lo ricordo spesso perché si tratta di una delle poche occasioni in cui mi sono trovato profondamente in disaccordo con D’Alema, attaccai duramente l’idea secondo cui la massima aspirazione della sinistra avrebbe dovuto essere fare dell’Italia un paese normale. Era un’immagine poco “appetitosa” per quella parte politica che, secondo me, doveva e deve ancora puntare a costruire un altro tipo di società, magari anche guardando alle idee socialiste. Eppure quell’obiettivo, me ne sono reso conto negli anni, appare ancora oggi non soltanto lontano, ma addirittura utopico. E’ stata, lo ammetto, una delle mie più grandi cantonate politiche. Continuo a pensare che la sinistra debba avere ideali alti su cui basare la propria iniziativa concreta. Debba mettere insieme “cielo e terra”. Ma la normalità, nel nostro caso, è l’obiettivo concreto più alto a cui si possa tendere.
Ne abbiamo la prova proprio in questi giorni. In tutto il mondo le opposizioni si stringono attorno al governo. Perfino la Le Pen, non proprio una moderata, è scesa dalle barricate e parla di battaglia comune da combattere, senza colori di partito. Succede ovunque, il governo chiama l’opposizione a un rapporto costruttivo, accoglie parte delle proposte che arrivano dalla minoranza, anche con un confronto serrato, e poi si arriva a una linea comune, su cui si lavora compatti.
Da noi succede il contrario. Dall’inizio dell’epidemia Salvini, Meloni e Renzi fanno ogni volta l’esatto contrario di quello che propone l’esecutivo. Partono le prime zone rosse? Bisogna riaprire tutto e subito. Lavorare! Gridava il leader leghista, con l’eco di Zaia e Fontana. Si provano a riaprire subito musei e altre attività? Serve massimo rigore. L’intera Italia diventa zona rossa? Non basta, chiudere tutto ma proprio tutto. Parte la fase più rigida della quarantena? Non va bene, così l’economia muore. Non che Conte non ci provi a venire a patti. Temo che alcuni provvedimenti del Governo nella loro genesi abbiano subìto modifiche profonde nel confronto con le Regioni.
La cosa più grave, infatti, è che non si limitano a enunciazioni teoriche, alla propaganda becera. No, usano le postazioni istituzionali che occupano per remare contro. Il caso della presidente della Calabria è esemplare. La Santelli che fino a ieri l’altro chiedeva l’intervento dell’esercito, adesso, con un atto platealmente illegittimo, concede a bar e ristoranti il servizio al tavolo, che potrebbe sembrare un’inezia, ma è considerato dagli esperti una delle possibili fonti di facile contagio. Non è neanche tanto difficile da capire: se il virus si trasmette con contatti prolungati, una cosa è entrare in un negozio fare rapidamente gli acquisti e uscire, un’altra è starsene seduti un’oretta, sia pur all’aperto. Ovviamente, la presidente, data l’urgenza dettata dalla necessità di mettere in difficoltà il governo, non si preoccupa neanche di stabilire delle regole, protocolli per la pulizia, le distanze da osservare nella disposizione dei tavoli. Nulla di tutto questo. Tanto che è riuscita a far andare su tutte le furie non solo i sindaci di buona parte della Regione, ma anche gli stessi commercianti.
Non la faccio troppo lunga, anche i miei pipponi nei giorni festivi sono in forma ridotta.
Mi limito a far notare che un’opposizione che non si limiti a dire che è tutto sbagliato, che l’unica soluzione è riaprire tutto, che l’antidoto alla burocrazia è l’azzeramento delle regole, che servono subito condoni di tutti i tipi, un’opposizione che si faccia carico del suo ruolo fino in fondo insomma, servirebbe eccome, anche a stimolare il governo.
E invece no, ci si affida a costituzionalisti improvvisati che gridano alla dittatura, si continua la campagna elettorale continua come se non ci fosse alcuna emergenza. C’è chi addirittura si scopre medium e fa parlare i morti.
C’è tutto un lavorio sotterraneo per far cadere il governo e sostituirlo con un esecutivo con tutti dentro, lo chiamano modello Ursula, per non far capire che si tratta della vecchia unità nazionale, magari presieduta da un tecnico presentabile. Con la regia neanche troppo occulta di Confindustria. E poi, questa è la cosa più divertente, si lamentano se la credibilità internazionale dell’Italia continua a essere scarsina.
Non sto qui a elencare meriti ed errori fatti da Conte, proprio perché, secondo me, nelle emergenze bisogna andare al sodo. Non che la democrazia sia sospesa, tutto si può dire meno che in questo Paese manchi la libertà di opinione. Si sono visti perfino parlamentari e dirigenti di partito manifestare in piazza durante la quarantena, che altro si vuole?
Dico però che se la democrazia è pienamente in vigore, sarebbe il caso di sospendere almeno la propaganda. Ma, come dicevo all’inizio, si tratta di un’utopia. La materia prima è quella che è. E continuo a temere che la classe politica rappresenti fedelmente lo stato disastrato del Paese, incattivito, rancoroso, incapace di quello slancio solidale che servirebbe adesso. Non basta cantare l’inno di Mameli da un balcone per essere un popolo.
Il coronavirus ci ha portato oltre la crisi di nervi.
il #pippone del venerdì/131
Ho scelto di aprire questo pippone con l’immagine dei deputati alla Camera (non so chi siano) con le mascherine perché mi sembrano emblematiche di un paese che ormai è andato oltre la crisi di nervi. È il risultato non tanto del coronavirus in sé, ma allo stesso tempo dei guasti provocati da questi anni di diffusione di odio e pregiudizi a pieni mani e di una gestione della crisi che, a essere buoni, lascia perplessi.
Permettetemi, intanto, una nota sarcastica: l’immagine degli italiani respinti alle frontiere fa sorridere. Quella dei vacanzieri rispediti indietro dalle Mauritius anche di più. Fino a poche settimane fa eravamo pronti a bloccare per mesi in mare qualche centinaio di disperati perché “portavano malattie”, ora gli stessi soloni di prima si indignano perché qualche decina di nostri connazionali sono stati fatti risalire in fretta e furia sull’aereo e sono stati rimandati a casa. Perché, appunto “portano malattie”. Ci hanno trattato come pacchi postali, tuonano oggi gli stessi che fino a ieri sostenevano che i porti andavano chiusi.
E’ una specie di legge del contrappasso che dovrebbe farci capire come, soprattutto nell’era della globalizzazione, la solidarietà dovrebbe essere un obbligo. E come chiudere le frontiere sia un’illusione che può andar bene per prendere qualche voto in più, ma alla fine sempre un’illusione resta. Viviamo in un mondo interconnesso, dove se starnutisci in Cina ti prendi il coronavirus a Codogno. Facciamocene una ragione e cerchiamo di essere meno provinciali. Valga come monito per il futuro.
Il coronavirus sfata anche una leggenda: quella dell’Italia che nelle emergenze dà il meglio di sé. In questo caso è avvenuto l’esatto contrario: la drammatizzazione iniziale dell’epidemia ha prodotto un’ondata di panico insensato e dannoso, amplificato ad arte da quei giornali che prima hanno fatto il conteggio in diretta del numero dei contagiati e poi si sono affrettati a dire che in fondo è poco più di un’influenza.
Al corto circuito mediatico ha dato fiato una reazione scomposta da parte di una classe dirigente che si è dimostrata nel suo complesso inadeguata. Chi chiude i musei, chi si rintana in casa, chi chiude le scuole senza avere neanche un caso di contagio, bloccate anche le gite scolastiche all’estero non si capisce bene per quale motivo. La famosa Italia dei mille comuni ha dimostrato la sua fragilità. Si sa, che i sistemi democratici affrontano le crisi con grandi difficoltà rispetto alle dittature. Si studia sui libri di scienza della politica. Ma nelle crisi le grandi democrazie si compattano, lasciano da parte le polemiche e si mettono a lavorare senza guardare alle distinzioni politiche. Da noi ci si divide ancora di più, mostrando tutti i guasti prodotti dal regionalismo di fine secolo. Venti sistemi sanitari non funzionano in tempo di pace, figuriamoci nelle emergenze.
Noi no, insomma. Non si è mai visto un presidente del Consiglio che va a accusare gli operatori sanitari, quelli esposti in prima linea, durante un’emergenza sanitaria. Non si è mai visto un presidente di Regione che prima accetta le misure disposte dal governo e poi fa di testa sua. In piena crisi non abbiamo trovato di meglio che combattere a colpi di ricorsi al Tar.
In tutto questo poco ha potuto un ottimo ministro della Salute come Roberto Speranza, che fin dalla sua presenza fisica si dimostra uno dei pochi ad avere la testa sulle spalle. Ha il fisico del bravo ragazzo, un’aria rassicurante e pacata: due ottimi in gradienti per evitare che si scateni il panico. Ci ha provato, lavorando giorno e notte, ma alla fine, si sa, in questo Paese emerge chi fa la voce grossa, non chi lavora e parla pacatamente.
Ci mancavano gli avvoltoi che si sono avventati sul governo pronti a spartirsene le spoglie. Salvini che si dice pronto a un esecutivo di emergenza nazionale. Renzi che gli dà di spalla, salvo poi andare in tv con la faccia seria (che poi proprio non gli riesce) a dire che adesso si lavora uniti, del futuro della maggioranza si parlerà poi. Poche ore prima si messaggiava con il presidente della Regione Lombardia per esprimergli la sua solidarietà contro Conte.
Nel mezzo del dramma, creato in primo luogo da tutta questa confusione, è arrivato il dietrofront, dicevamo. Qualcuno deve essersi reso conto che un’altra settimana a conteggiare i contagiati e della nostra economia sarebbero rimaste poche briciole. Turismo a Roma a quota meno 90 per cento, solo per dare un dato. I mercati si sono incazzati e allora tutti in televisione a minimizzare, a dire che in fondo si guarisce, muoiono soltanto anziani e persone con altre patologie. Basta lavarsi le mani con il sapone e stare sereni.
Mi è sembrato un po’ come voler rimettere il dentifricio nel tubetto spremuto a fondo. Perché fino a poche ore prima impazzavano i Burioni di turno a dire: tappatevi in casa, disinfettate tutto. E fino a poche ore prima giravano immagini come questa dei due deputati alla Camera con la mascherina.
Contenti di tutto questo solo i produttori di Amuchina e roba del genere. E ora che si fa? Attendiamo l’estate, magari passa da solo. Tanto il campionato di calcio va avanti, prima o poi la gente penserà ad altro. Resto con un forte senso di nausea. Ma non temete, credo sia soltanto una reazione psicosomatica.
Renzi, il nostro mal di testa quotidiano.
Il pippone del venerdì/130
Ho resistito a lungo alla tentazione di parlare dell’attualità politica (se di politica si può parlare), ma alla fine cedo. Anche per rivendicare, ormai alcuni mesi fa, di aver definito l’ex segreterio del Pd un “Bertinotti moderato”. Affermazione che mi ha provocato una marea di critiche dalla presunta sinistra, ma che vedo essere entrata oggi nel lessico quotidiano di molti autorevoli commentatori. Come dire, ogni tanto ci azzecco anche io, fosse pure per sbaglio.
Quello che sta succedendo, torniamo alle cose di oggi, è divertente quanto una sfilza ininterrotta di calci nelle parti basse. E il solo leggere la rassegna stampa ogni mattina – cosa che, purtroppo, mi tocca per doveri d’ufficio – mi provoca un forte giramento delle stesse parti, con conseguente mal di testa che si palesa arrivati a pagina 5 dei principali quotidiani nazionali. Esaurite, cioè, le sfilze infinite di articolesse su retroscena, presunti responsabili che in cambio del mantenimento della poltrona sono disposti a tutto, battute e controbattute.
Ora, tutta questa roba ha l’unico scopo di riempire qualche pagina, tanto, si sa, i quotidiani dopo poche ore sono buoni soltanto a incartare le uova. Se sono online manco per questo nobile utilizzo. Di quello che succede davvero nel Paese, va ribadito, frega poco a quasi tutti. Renzi, in particolare, ha un’unica strategia: Renzi. Cito Bersani, lo confesso, uno che pur con tutte le sue contraddizioni ha una capacità di analisi non comune.
La battuta, di quelle fulminanti, racchiude in sé tutta l’essenza del rignanese, la sua forza e la sua debolezza allo stesso tempo. La sua forza perché all’italiano medio, si sa, il bullo piace. La sua debolezza perché è talmente preso da sé che alla fine si schianta sempre contro un muro che non riesce a vedere.
Entrando nel merito – si fa per dire – Renzi fa due proposte “bomba”, così le hanno definite i giornali: eliminare il reddito di cittadinanza e introdurre il cosiddetto “Sindaco d’Italia”. In pratica propone di sfasciare il governo e di avviare un percorso di revisione costituzionale che a occhio durerebbe un paio di anni. Che le due cose siano in palese contraddizione non gli interessa, vuole soltanto sparigliare le carte. Poco importa che le proposte siano, nel merito, due colossali idiozie.
Intanto, in una situazione di profonda crisi economica – e il coronavirus di certo non aiuterà – tira fuori la brillante idea di togliere qualche miliardo ai disoccupati per darlo ai padroni (si chiamano così, a me tutto sto politically correct dà il voltastomaco). Così si darebbe una forte iniezione di soldi freschi all’economia, sostiene il genio della finanza. Peccato che mancherebbe il mercato a cui rivolgersi, ma mica può risolvere tutto il rignanese, che diamine. Renzi si preoccupa soltanto di infilare un dito nell’occhio, diciamo così, ai grillini che su quel provvedimento hanno battuto da sempre. E che, del resto, segue la strada tracciata dal “Rei”, introdotto proprio dal governo Renzi. Insomma, una cosa di sinistra aveva fatto, ora la vorrebbe togliere soltanto per creare scompiglio. Servirebbe uno dei fratelli Guzzanti in gran forma, ne sentiamo davvero la mancanza.
La seconda ideona, che non c’entra nulla con la prima, è, tradotta in termini comune, l’elezione diretta del premier, al quale si affiderebbe non più un ruolo di primus inter pares all’interno del Consiglio dei ministri, ma diventerebbe un vero e proprio potere a parte. A quali conseguenze porti tutto questo, al lungo lavoro di architettura istituzionale che servirebbe, Renzi non pensa. Lui le riforme le fa in tv. Anche perché anche in questo caso, mica fa sul serio: vuole solo bloccare l’intesa, che i suoi avevano sottoscritto, sulla legge elettorale proporzionale. Perché quello sbarramento al 5 per cento lo taglia automaticamente fuori dal Parlamento. E voi ve lo immaginate un Parlamento senza Renzi? Io francamente sì, lui un po’ meno. L’idea lo terrorizza.
Come andrà a finire? Secondo me male. Perché in tutto ciò il governo resta paralizzato, bloccato da schermaglie parlamentari incomprensibili a tutti, perché il motivo è sempre lo stesso. Logorare l’esecutivo guidato da Conte. Che poi l’abbia fortemente voluto lo stesso Renzi è un particolare irrilevante.
Ma qual è, e mi avvio alla conclusione, non temete, la colpa del povero Conte? E’ semplice: potrebbe occupare lo stesso spazio a cui ambisce l’ex segretario del Pd. Quel centro politico a cui tutti ambiscono, salvo poi ritrovarsi sempre con un pugno di mosche in mano. Terre affollate di gente in cerca di poltrone, meno di elettori, che tendono a polarizzarsi sugli schieramenti maggiori. A Renzi non importa, gli basta di essere al centro dell’attenzione. Alla faccia degli italiani che non arrivano al 15 del mese.
Contro la politica della noia serve una sinistra modello Schlein.
Il #pippone del venerdì/129
Ecco, secondo me, uno dei male peggiori della politica italiana è proprio questo: la noia. Ci sono settimane in cui è perfino complicato trovare un argomento su cui ragionare. Il confronto non avviene mai o quasi mai sui temi decisivi per il nostro Paese, ma soltanto sulle tattichette che si reputano necessarie per garantire visibilità, ovviamente a sé stessi. Renzi in questo caso è un po’ un caso di scuola: non fa mai nulla con sincero slancio, tutto è in funzione del suo sviluppatissimo io che non ama stare lontano dal centro dei riflettori.
La stessa vicenda di questi giorni è esemplare: ci si scontra su un tema, quello della prescrizione, che sarà anche importante, ma del quale al 99 per cento degli italiani non frega assolutamente nulla. La prescrizione, i tanti paroloni usati spesso a sproposito, il garantismo contrapposto al giustizialismo: tutte scuse. E’ evidente che lo scopo è un altro: Renzi non crede – non ci ha mai creduto – che questa maggioranza possa diventare un’alleanza strutturale. Anche perché in quello schema non c’è posto per lui, altra cosa abbastanza evidente: una coalizione fra Pd e 5 stelle ha bisogno semmai di una copertura sul fronte sinistro. Di moderati ne abbiamo a bizzeffe. E allora che si fa? Si usa il “trattamento Letta”, quello altrimenti detto della goccia cinese: si logora il presidente del Consiglio con una dichiarazione al giorno, con le trattative infinite che quando sembrano arrivate a un punto di equilibrio vengono fatte saltare e si ricomincia da capo. Poi si sussurrano i nomi delle possibili alternative, senza che ovviamente gli interessati ne siano informati.
Potrebbe sembrare un paradosso perché Renzi di questo governo è stato uno dei principali sponsor. Ricordate quanto Zingaretti fosse inizialmente contrario? Fu proprio il bullo di Rignano a convincerlo, lo ha dichiarato lui stesso in una lunga intervista al direttore del Tempo. Ma Zingaretti, da politico scaltro quale è, ha fiutato l’aria e si è messo a lavorare per fa trasformare un incidente momentaneo in una possibile alleanza di lungo respiro. Le difficoltà, Renzi a parte, non mancano comunque, ma difficile dar torto al segretario democratico.
A Renzi il Conte bis, invece, serviva soltanto a prendere tempo. Doveva organizzare la sua scissione, per mettersi in salvo insieme ai fedelissimi che, in caso di elezioni anticipate, di certo non sarebbero tornati in Parlamento. Subito dopo sono cominciati i distinguo, i veti alle misure più innovative proposte nella legge di stabilità, quel lavoro di logoramento che vorrebbe condurre il governo alla paralisi in maniera da poterne proporre un altro più comodo per i disegni del rignanese.
Il tutto, su questo credo ci sia davvero ampio consenso nel Paese, è una noia mortale. Non appassiona manco i peggiori conduttori di talk show. Le elezioni, in realtà, secondo me le vogliono in pochi. A maggior ragione in una situazione di incertezza, aggravata dal taglio dei parlamentari senza aver ridisegnato i collegi né tanto meno aver messo mano alla legge elettorale.
Mi sembrano scene di una politica che non capisce più la situazione che stiamo vivendo. Per di più si applicano i trucchi e le astuzie di un mondo che non c’è più a un mondo che si muove a velocità impensabili in passato. Tanto per dire: Conad annuncia 5mila nuovi cassintegrati. E non si tratta di una notizia isolata, sono decine ogni giorno le situazioni di questo tipo. L’Italia è ferma, non ne può più di una politica inconcludente che fa solo annunci e non riesce a essere concreta.
In questo panorama scialbo, fa piacere la notizia di Elly Schlein che viene nominata vicepresidente della nuova giunta in Emilia Romagna. La ragazza, lo confesso, mi piace molto e non da adesso. Intanto è stata la candidata più votata. E con quel cognome complicato ha fatto una vera impresa. Ci sarebbe da chiedersi perché. Da sola ha portato il 25 per cento dei voti dati a tutta la lista “Coraggiosa”. La risposta è semplice, quasi banale se volete: è una che, al contrario di tanti suoi colleghi, non insegue il consenso, lo raccoglie.
La sinistra dovrebbe andare a lezione da lei, servirebbe un corso intensivo. Ecco: il tema non è tanto replicare l’esperienza di “Coraggiosa” a livello nazionale, che poi sarebbe nient’altro che una riedizione di Leu. Il tema è replicare la Sclhein, ovvero crescere una generazione di dirigenti che non inseguono il consenso ma lo generano. E come si fa? Non la conosco di persona, ma mi sembra una persona semplice, competente, che dice quello che pensa in maniera comprensibile, diretta, senza politichese.
E’ stata fantastica dalla Bignardi, un’intervista in cui ha parlato di un tema delicato come la sua bisessualità in una maniera così bella da renderla una cosa naturale, scontata, sulla quale non ci deve essere nulla da eccepire. In un minuto ha spezzato un tabù ben radicato in noi italiani. Ho amato uomini, ho amato donne. Adesso sto con una ragazza che ha il pregio di sopportare i miei difetti. Semplice, diretta, senza fronzoli, senza retorica di alcun tipo.
Ecco, a me piacerebbe una sinistra così, modello Schlein, non modello Renzi.
Avete voluto l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti?
Il #pippone del venerdì/122
Si moltiplicano i casi giudiziari che riguardano le fondazioni legate ai partiti o alle correnti varie. Dovrebbero essere organizzazioni di naturale culturale, centri di elaborazione per mettere a disposizione della politica idee e progetti di alto livello. Dei “pensatoi”, insomma. In realtà, a parte rare eccezioni, sono dei collettori di denaro, per loro natura poco trasparenti. Tanto per farci un’idea di cosa stiamo parlando, ne risultano attive una sessantina. E, in quanto fondazioni, rispondono a norme differenti rispetto ai partiti stessi. Si fa fatica a trovare l’elenco dei finanziatori, ad esempio. In questi giorni è scoppiato il caso di Open, la fondazione legata a Renzi, ma gli esempi sono molti, in realtà, da destra a sinistra. Insomma, il problema non è Renzi (almeno non in questi caso specifico, ma il sistema in sé).
Andiamo come al solito con ordine. Dando una sponda alle campagne (politiche e di stampa) contro i partiti e contro la kasta, nel 2014, siamo al governo Letta, viene di fatto abolito il sistema di rimborsi elettorali, il cosiddetto finanziamento pubblico. Oggi restano soltanto due forme di finanziamento, il 2 per mille, ovvero la libera scelta del singolo contribuente di destinare parte delle sue tasse a una formazione politica, oppure il finanziamento diretto dei privati, tramite donazioni che possono arrivare a 100mila euro l’anno e che devono essere rendicontate.
Dal 2016, anno in cui la legge ha effettivamente dispiegato a pieno i suoi effetti, dunque, i partiti si finanziano soltanto con contributi privati. E già questo, l’ho scritto più volte, è discutibile. In più quasi tutte le maggiori forze politiche hanno messo in piedi fondazioni che, come detto, hanno regole meno rigide e meno trasparenza.
Ora, lungi da me essere contro il finanziamento del singolo militante, tramite il 2 per mille, il tesseremento, o sottoscrizioni libere. Qui si discute di altro. Ovvero di imprenditori che versano in forme varie centinaia di migliaia di euro ogni anno a organismi privati e spesso fuori controllo. A volte lo fanno in cambio di un “lavoro” fatto (uno studio, un convegno), a volte a fondo perduto.
Al di là dei singoli reati che i magistrati contestano di volta in volta, viene da chiedersi per quale motivo un imprenditore dovrebbe donare a un partito (a una fondazione, in realtà, ma questo è soltanto un passaggio di comodo) cifre così ingenti. Passione politica, mecenatismo? Sono imprenditori illuminati che capiscono l’importanza che hanno i partiti per la democrazia? Si può anche crederlo e ci sarà anche qualche caso così. Io credo, però, che in realtà si tratta di mera azione di lobbing: ti finanzio e tu porti avanti i miei interessi.
Letta così l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti li ha resi ancora più deboli e costretti a piegarsi alle logiche economiche anche soltanto per sopravvivere. Altro che autonomia del sistema politico. Da qui la risposta alla domanda che ponevo nel titolo di questo pippone: ora vi beccate un quadro politico non solo meno trasparente, ma per sua natura soggetto al ricatto dei finanziatori.
Questa è la caratteristica dell’azione di lobbing, se non è sottoposta a regole certe. Che il lobbista, occulto, diventa padrone, per quota parte, delle scelte che il beneficiato compirà in parlamento. Senza che i cittadini possano avere immediatamente contezza di quello che succede. E fin’ora abbiamo parlato soltanto delle fondazione e dei partiti, che quanto meno sono organismi collettivi. Applicando lo stesso ragionamento ai finanziamenti fatti al singolo candidato alle elezioni il quadro è ancora più fosco. Insomma, non si tratta solo di accertare eventuali reati: ovvero uno scambio di favori diretto che configura vere e proprie ipotesi di corruzione. E’ il sistema intero che è di per sé sbagliato. Ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quanto, almeno a parole, si proponeva l’ondata contro i partiti, cavalcata in primis dai grillini.
E’ uno dei danni prodotti dalla debolezza culturale della sinistra in questi anni. Troppe le occasioni in cui non si è riusciti ad andare controcorrente e prendere decisioni che in quel momento sarebbero state impopolari, ma erano giuste. E’ successo con la riforma del titolo V della Costituzione, che ha generato quel sistema misto Stato-Regioni che ha devastato un diritto essenziale come quello alla salute e ha moltiplicato carrozzoni e enti inutili, invece che avvicinare il governo ai cittadini. Ci siamo cascati ancora con l’abolizione del finanziamento pubblico.
Inutile aspettarsi un’inversione di tendenza netta. La ricetta sarebbe semplice: vietare le donazioni dei privati (fatte salve le sottoscrizioni di modesta entità) e tornare a rimborsi legati all’attività dei partiti. Servirebbe coraggio, magari una legge che garantisca regole democratiche nel funzionamento delle forze politiche, in maniera da avere un effettivo controllo sull’impiego dei fondi pubblici. E invece, ancora una volta vesto i panni comodi del facile profeta, si preferirà parlare di responsabilità dei singoli (che ovviamente vanno accertate e perseguite): come dire, si toglierà qualche pagliuzza dagli occhi dei cittadini, la trave resterà ben piantata al suo posto.
Una manovra economica da Paese normale. Ma basta? Il #pippone del venerdì/117
Al di là dei giudizi di merito, proverò a dire due o tre cose più avanti, la cosa che più balza agli occhi è che dopo i 14 mesi siamo tornati a essere un paese normale. Al di là dei tormentoni giornalistici sui vertici notturni, su presunte liti furibonde e valanghe di emendamenti in arrivo, la manovra economica questo dice. C’è una coalizione fra forze politiche che fino a pochi mesi fa stanziavano stabilmente su sponde opposte. Ma nelle pagine della manovra economica si intravede un disegno collettivo. Chi lo avrebbe detto appena ad agosto che non ci sarebbero stati scontri con l’Europa né piazze dove si annunciano provvedimenti epocali?
Zingaretti dice che “abbiamo fatto un mezzo miracolo”. E forse il miracolo è proprio questo. Essere tornati a essere un Paese normale, dove chi governa si prende le sue responsabilità senza troppa enfasi. E’ solo il primo passo. E bene fa il segretario del Pd a premere sull’acceleratore proponendo che quella che avrebbe dovuto essere un inciampo in una storia diversa diventi un’alleanza strutturale, in grado di competere alle elezioni per vincere. Siamo appena all’inizio, perché pur sempre di forze molto diverse si tratta. E poi resta l’incognita Renzi, che in molti danno come mandante di un altro ribaltone per far cadere Conte subito dopo il voto finale sulla manovra. Restiamo ai fatti. Dovrà cambiare il Pd, dovranno diventare più simili a un partito tradizionale anche i 5 Stelle, se vogliono essere davvero fattore di cambiamento e non una meteora che si brucia nel giro di una tornata elettorale. Servirà, non mi stanco di ripeterlo, una forza nuova della sinistra italiana, che non si può considerare esaurita nel Partito democratico.
Piccoli segnali di questa necessaria evoluzione ci sono. Per quanto riguarda il Pd, la proposta di un nuovo statuto fa i conti con la realtà ed elimina l’automatismo segretario/premier. L’abbiamo importata dai sistemi anglosassoni, ma da noi, con un sistema politico multipolare, non funziona. Piano piano abbandoneranno anche l’illusione della vocazione maggioritaria. Che non si significa rinunciare a crescere, ma capire che si rappresenta un blocco sociale, non l’intero corpo elettorale.
Nei 5 Stelle cominciano a spuntare voci dissonanti. E anche questo è un bene. Perché un partito ha bisogno di discussione, di dissenso. Non può essere semplicemente espressione di un leader, altrimenti dura fin quando il leader stesso resta in auge. La lezione di Forza Italia dovrebbe insegnare qualcosa.
Resta sullo sfondo, al momento, la questione di una nuova forza della sinistra italiana. Che poi è paradossale: in quasi tutte le tornate elettorali a cui abbiamo assistito, regionali o amministrative, sono state presentate liste che, in un modo o nell’altro, provano a proseguire l’esperienza di Leu. Hanno funzionato quando rappresentavano un reale radicamento sociale e non una semplice accozzaglia messa insieme per eleggere qualche rappresentante. Hanno fallito miseramente quando era evidente il contrario. Non si capisce bene perché, avendone a quanto pare tutto il tempo, non si dovrebbe continuare a lavorare in quel senso anche a livello nazionale. Questione, come spesso è accaduto in questi anni, più di piccoli egoismi che di reali differenze.
Qualche notazione sul contenuto della manovra economica. Ci sono più tasse per chi le può pagare, un progetto che va oltre l’anno sulla lotta all’evasione, si comincia a intervenire sul cuneo fiscale premiando i lavoratori e non le aziende. Si parla di investimenti sulle infrastrutture, ci sono forme di tassazione sulle produzioni più inquinanti a partire dagli imballaggi di plastica. Del resto, perché stupirsi? Viviamo in un’economia di mercato e finché le confezioni ecologiche non saranno più convenienti della plastica continueremo a beccarci le fettine confezionate una a una in vaschette e pellicola. Sarà che io sono un nostalgico dei vecchi cartocci in cui una volta ti consegnavano tutta la spesa e anche del vuoto a rendere. Insomma, non mi dispiace, il green new deal non può essere solo uno slogan.
Una manovra che lancia segnali precisi, insomma. Certo, si poteva essere più coraggiosi accelerando su alcuni punti, penso ad esempio l’uso delle carte al posto del contante. Ma già che si introducano sanzioni per i commercianti che non ti fanno usare il bancomat mi pare un grande passo in avanti, in un Paese che da sempre apprezza chi fa comizi sul cambiamento, ma poi fa le barricate anche se cambi un senso unico in una strada di campagna.
C’è un generale processo di semplificazione sulle tasse, ad esempio per quanto riguarda il regime fiscale che riguarda la casa. C’è la prospettiva di ticket sanitari più giusti, che permettano a una platea più ampia di avere garantito il diritto alla salute.
Basterà a rilanciare il nostro Paese? Io credo che più del contenuto delle norme, i mercati, gli investitori, ma più in generale anche i cittadini, guardino alla capacità complessiva di governare che avrà l’esecutivo guidato da Conte. L’economia è anche un fatto psicologico. E così se gli investitori sono attratti sicuramente da un luogo che ha miglior infrastrutture, una giustizia rapida, un contenzioso minore, è anche vero che la nostra propensione a spendere aumenta se abbiamo la percezione che il nostro futuro può essere migliore. Si compra una casa nuova non tanto e non solo perché i mutui sono bassi, ma perché abbiamo la sensazione che il nostro lavoro è stabile e abbiamo la possibilità di migliorare la nostra posizione. Per anni siamo stati bloccati dalla percezione contraria. Per anni siamo stati impegnati a odiare chi aveva meno di noi e contro i più deboli abbiamo scaricato ansie e frustrazioni.
Questo è il grande compito che deve porsi questo governo. Cominciare a cambiare la percezione che i cittadini italiani hanno del loro futuro. Basterà una manovra economica? Sicuramente no, ma qualche passo nella direzione giusta lo abbiamo fatto.
Se Renzi si mette a fare il Bertinotti.
Il #pippone del venerdì/115
Si respira da qualche settimana una strana aria di normalità. Dopo i 14 mesi di eccessi salviniani, compreso l’uso del ministero dell’Interno come fosse una clava da brandire contro gli avversari, l’Italia si è svegliata in un clima da anni ’80 del secolo scorso. Tratta con i partner europei, invece di alzare i toni e poi cercare di raccogliere i frutti dell’alzata di capo, il governo compone le sue differenze in maniera direi quasi democristiana. Le tirate di Di Maio sono più a uso e consumo dei social-seguaci che ultimatum veri e propri.
Si sonnecchia, apparentemente, ma qualche risultato comincia anche ad arrivare. Vedremo se agli annunci corrisponderà una manovra economica che finalmente rimetta qualche soldo in tasca agli italiani, punti sullo sviluppo e faccia fare passi in avanti nella lotta all’evasione. Tema da sempre evocato da tutti i governi, ma mai preso di petto seriamente. Con l’eccezione forse dell’odiatissimo quanto bravo Vincenzo Visco nel governo Prodi.
Bene, intanto, il ministro Speranza che si fa valere in maniera discreta senza troppi proclami altisonanti e intanto, a quanto viene anticipato, porta a casa un sostanzioso aumento del Fondo sanitario regionale e la progressiva eliminazione del superticket. Una vera e propria tassa sulla povertà. Bene anche l’idea di modulare i ticket in base al reddito: è giusto – e tra l’altro segue alla lettera il dettato costituzionale – che chi può permetterselo contribuisca anche a garantire la salute a chi non ha i mezzi. Tra l’altro tornare a instillare pillole di solidarietà interclassista in un Paese incattivito e rancoroso non può che far bene. Sperando serva a ridurre la percentuale di italiani che deve rinunciare a curarsi perché non può permetterselo.
Bene anche le mosse di Roberto Gualtieri, che sta facendo valere i suoi trascorsi in Europa per portare a casa limiti meno rigidi per quanto riguarda il deficit. Stiamo tornando ai fondamentali dell’economia classica: in una fase di crisi – e quella che stiamo vivendo lo è a pieno titolo, basta guardare i fondamentali della Germania – non si può andare troppo per il sottile, servono interventi espansivi per far ripartire il Paese. E, come è noto, gli interventi pubblici fanno sempre da volano agli investimenti privati. Chi mastica un po’ di economia sa che in questi casi l’effetto moltiplicatore è molto alto. Se saremo in grado di proporre misure serie nella manovra economica, questa non potrà che avere una ricaduta positiva per tutti, dagli imprenditori ai lavoratori. Ai quali bisogna venire incontro con una riduzione netta del cuneo fiscale. Un vero e proprio furto che va, sia pur progressivamente, eliminato.
Se a tutto questo si aggiunge che il costo del denaro, grazie all’accorta politica della Bce guidata da Mario Draghi, è praticamente zero, ci sono tutte le condizione per provare a superare il dosso della crisi e ripartire questa volta davvero. Non leggo, al momento, di interventi previsti per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. E credo sia uno sbaglio. Se la sinistra vuole riguadagnare i voti persi deve mettere mano al jobs act e a una legge sulla rappresentanza sindacale. Ci sarà tempo per parlarne, spero subito dopo l’approvazione della manovra economica.
I sondaggi, sia pur con tutte le cautele del caso, sembrano dar ragione a chi si è battuto per formare questa “strana” alleanza. Riuscendo a mettere insieme tutto il centro sinistra e i 5 stelle si va oltre il 50 per cento dei consensi. Anche nella martoriata Umbria, dove si va a votare in seguito allo scandalo che ha coinvolto i vertici del Pd locale, la partita sembra tutta da giocare, anche lì l’alleanza “civica” rosso-gialla può competere davvero. E rispetto alle ultime débacle alle regionali anche partecipare per vincere rappresenta una novità. Tutto bene dunque? Manco per niente.
Da questo quadro, che al momento mi sembra abbastanza positivo, si distacca l’atteggiamento di Matteo Renzi. Perdonate il paragone, ma a me sembra che ambisca a stare nella maggioranza e fare un po’ il Bertinotti della situazione. Quello che la sera ti dice “va bene, siamo d’accordo su tutto” e poi la mattina ti convoca una bella conferenza stampa per dire che “proprio non ci siamo”.
L’altra sera l’ex segretario del Pd, ha sentenziato: “Se Conte vuole stare sereno non alzi le tasse”. Tutto questo mentre la maggioranza discuteva di una possibile rimodulazione di alcune aliquote Iva, con un meccanismo di bonus/malus per chi paga con strumenti tracciabili e chi invece usa i contanti. Un meccanismo, dal governo giurano a saldo zero, che avrebbe fatto fare qualche serio passo contro gli evasori. I maligni potrebbero pensare che il fiorentino tende a tutelare il suo supposto elettorato, fatto di professionisti e piccoli imprenditori, quelli a cui la lotta all’evasione fa venire le bolle in faccia.
Più semplicemente Renzi cerca di giocare la carta dei distinguo per accreditarsi presso l’opinione pubblica come il difensore delle tasche degli italiani. E per fare questo mette in crisi la traballante pax che regna nella maggioranza. Scherza con il fuoco, ma rischia di essere un “pierino” molto dannoso. Di tutto abbiamo bisogno fuorché dell’immagine di una maggioranza litigiosa. Si spendesse piuttosto, insieme agli altri, contro i dazi imposti da Trump sui prodotti europei, che rischiano di mettere ko le nostre eccellenze a partire dal parmigiano. Usasse la sua indubbia capacità mediatica per rintuzzare gli attacchi del centro destra che, dopo un comprensibile sbandamento, cerca di riprendere centralità nella scena politica.
Ora, so che Renzi ha una profonda avversione per la storia, sia recente che antica. Lui preferisce parlare di futuro. Ma alla vigilia della Leopolda sarebbe bene che qualcuno gli ricordasse la fine che ha fatto Bertinotti, passato da leader nazionale a vecchia comare della politica italiana nel giro di pochi mesi. Pierino può anche stare simpatico per qualche tempo, ma poi stufa. Cambi personaggio, finché è in tempo.
Due o tre sassolini sul “Caso Marino” e non solo.
Il pippone del venerdì/96
La sentenza della Cassazione che ha assolto l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha alzato un vespaio di polemiche che hanno al centro il Pd, il suo comportamento di quegli anni, ma che in realtà pongono problemi di portata ben più ampia sul ruolo dei partiti, sul rapporto fra questi e gli eletti. E questo, secondo me, è uno dei nodi che negli anni scorsi non siamo riusciti a sciogliere e che hanno aggravato la crisi della sinistra. Una crisi di idee, ma anche, per così dire, organizzativa. Nel senso che un partito solido in crisi di idee può cavalcare l’ondata avversa, un partito in crisi di idee che non ha più fondamenta organizzative viene travolto e non riesce tornare a galla.
Ma andiamo con ordine. Cosa è successo in quegli anni a Roma, nel campo del centrosinistra? Una lotta di potere all’ultimo sangue, nella quale la parte fino ad allora storicamente minoritaria del Pd e ancora prima nei Ds, quella che fa capo all’ex presidente del partito Matteo Orfini, si trova in mano per la prima volta la chiave della stanza dei bottoni e ne approfitta per regolare i conti. La caduta di Marino, le famose firme dal notaio, sono semplicemente una conseguenza di questa guerra, il secondo stadio di una strategia complessa il cui obiettivo era un altro: Nicola Zingaretti. Quel Nicola Zingaretti che, non a caso, sul caso Marino non spese una parola, tutt’altro: i consiglieri della sua corrente si accodarono silenti a firmare le dimissioni. Troppo rischioso opporsi.
Renzi voleva mettere le mani su Roma, tramite il proconsole Orfini, e allo stesso tempo pianificò a tavolino una strategia che avrebbe portato i 5 Stelle al governo di Roma. Nei piani dello statista fiorentino, che di Marino non aveva la minima stima e che dava Roma comunque per persa, la caduta anticipata dell’amministrazione avrebbe messo in difficoltà i 5 Stelle che ne avrebbero pagato poi lo scotto a livello nazionale alle elezioni politiche che sarebbero arrivate dopo un paio di anni. Sappiamo come sono andate le cose: i 5 stelle primo partito, il Pd allo sbando dopo una scissione non solo con un pezzo di gruppo dirigente, ma con buona parte dei suoi elettori.
Allora che è successo a Roma? Arriva la famosa inchiesta di Mafia Capitale. Che poi ancora non si capisce quale fosse l’elemento mafioso. Sono passati pochi mesi dall’elezione di Marino a sindaco. Mesi complicati dove l’inesperienza e anche una certa convinzione eccessiva dei propri mezzi – diciamola così – aveva provocato errori gravi. Ora, intanto Marino è uno che non si fida di nessuno. E quindi tende a circondarsi delle stesse persone, un cerchietto magico. Cosa che non porta mai troppo bene. Poi si stabilisce uno strano rapporto con il Pd di Roma. Marino accetta una serie di assessori indicati dal partito, ma poi fa di testa sua e spesso sbaglia. Clamoroso il caso di Paolo Masini che viene mandato ai Lavori pubblici. Masini è forse uno dei migliori dirigenti e amministratori di quella stagione. Peccato che in vita sua si sia sempre occupato di scuola, sociale, cultura.
Quando scoppia il caso di Mafia Capitale, comunque, per settimane non si parla d’altro. Pagine e paginate sui giornali. Su un caso che, badate bene, se guardato in scala capitolina è davvero marginale. A Roma gli affari si fanno sul mattone, quelle due cooperative sociali (perché alla fine di questo si tratta) che avrebbero pagato mazzette, si spartivano le briciole. Il caso, tra l’altro, riguarderebbe più l’amministrazione Alemanno che quella Marino. Eppure un assessore finisce addirittura in galera, vengono coinvolti consiglieri comunali e regionali. Vengono costretti a dimettersi dagli incarichi istituzionali che ricoprono con una violenza giustizialista inaudita.
Parte l’assalto al fortino. Renzi, in una drammatica riunione, comunica al segretario romano del Pd, Lionello Cosentino, che avrebbe commissariato la federazione. Cosentino, pochi mesi prima, aveva vinto il congresso proprio contro il candidato renziano e contro quello di Orfini. Notare: nessun esponente della federazione del Pd viene coinvolto nell’inchiesta, che si ferma al livello amministrativo. Tra l’altro, come dire, diversi dei nomi che escono sono stati nel passato più vicini a Orfini che a Cosentino. Le cui proteste, si racconta di una riunione parecchio nervosa, non hanno comunque effetto. Il presidente del partito diventa commissario. Secondo lo statuto del partito dovrebbero restare comunque in carica gli organismi dirigenti. Ma Matteo 2 non se ne cura e procede a colpi di decreti. Affida allo stimatissimo professor Barca una indagine sullo stato dei circoli del partito. Una roba davvero ridicola, con alcuni ricercatori universitari che girano facendo domande ai militanti senza minimamente capire come funzionava quel partito. Caso strano, dai risultati, annunciati in pompa magna dallo stesso Barca alla festa dell’Unità, emerge una sorta di hit parade dei circoli. Caso strano, quelli vicini al commissario sono i più virtuosi. Alcuni diventano addirittura circoli mafiosi. Altri vengono classificati come sostanzialmente inutili. All’epoca facevo, ironia della sorte, il segretario di un circolo di pertferia, a Capannelle, e durante l’intervista spiegai che le nostre attività erano state soprattutto rivolte verso l’esterno, citai la proposta della “Appia antica station”, il treno che doveva portare i turisti alle porte dei due grandi parchi archeologici della Capitale, le feste del quartiere, le raccolte di firme su temi locali. Portai un “portfolio” corposo di manifesti, volantini, iniziative in piazza, i rapporti con il comitato di quartiere, che avevamo contribuito a ricostruire. Nella classifica finimmo fra i circoli definiti “identitari”, ovvero quelli che lavoravano soltanto sull’identità del partito, chiusi al quartiere. Mistero.
Comunque sia la storia va avanti: Orfini chiude un po’ di circoli antipatici, si inventa perfino storie assurde, come quella della sede di Corviale dove aveva trovato un cavallo. Mai successo. E poi il colpo di mano sul partito: contro tutte le regole statutarie i circoli diventano soltanto 15, uno per municipio, diretti da commissari di stretta osservanza, le sedi territoriali (quasi duecento all’epoca) diventano semplici appendici, senza più alcuna autonomia: né finanziaria, né di iniziativa politica. Un golpe. Difficile trovare parole diverse. Un golpe che, tranne rarissime eccezioni, subiscono tutti. Impauriti da un eventuale scontro con Renzi, allora all’apice del potere.
Sistemato il partito, Orfini passa al Comune. Dove, diciamolo, le cose non vanno proprio benissimo. La gestione dei rifiuti, alcune scelte discutibili sul piano urbanistico, le partecipate in cui non si assiste all’inversione di tendenza necessaria dopo i disastri di Alemanno, qualche gaffe del sindaco che se ne va in vacanza in momenti di gravissima crisi. Ora, in questi casi che si fa (e qui arrivo al discorso del rapporto fra un partito e i suoi eletti)? Secondo me si apre una riflessione nel partito e collettivamente si cerca di porre rimedio. Per governare Roma serve davvero un’intelligenza collettiva che vada al di là delle capacità del singolo. Serve un progetto e una forte unità di intenti. Il centro sinistra non aveva nessuna delle due. Che fa Orfini? Piazza due commissari in giunta: il vicesindaco Causi e l’assessore ai trasporti Esposito. Un disastro, soprattutto il secondo che più che lavorare pare remare contro, ogni giorno di più. Nel frattempo hanno anche la pensata, in accordo con il governo nazionale di commissariare per mafia il Municipio di Ostia, già commissariato in seguito alla caduta del presidente Tassone (detto per inciso: anche in questo non uno vicino a Marino, diciamo così). Un obbrobrio giuridico che aggrava la pressione sul sindaco. Si commissaria Ostia come vittima sacrificale per salvare Roma, si dice. E invece no.
E’ solo una tappa. Il cerchio intorno al collo dei sindaco si stringe con campagne di stampa vergognose. Si va dalla panda lasciata in divieto di sosta, ai famosi scontrini delle cene, denunciati dal grillino De Vito (ora sotto inchiesta per corruzione).
Ma Marino era così odiato dai romani come sostenevano Orfini e Renzi? Posto che non era un grande sindaco, anzi, la verità è che il Pd fece di tutto per ostacolarlo. Con la complicità di Sel che, per bocca del segretario nazionale arrivò a minacciare una mozione di sfiducia. Salvo poi rimangiarsi tutto, perché i militanti si accorsero della cazzata e minacciarono la rivolta. Marino si dimise. Fu costretto a dimettersi dall’azione combinata da Renzi e Orfini e dal silenzio terribile di tutti gli altri. Ci fu una reazione popolare a favore del sindaco. Molto limitata a dire il vero, poche centinaia di persone. Ci andai anche io, che pure non ero un fan di Marino. Perché capii che al di là dell’efficacia dell’azione amministrativa stavamo imboccando la strada sbagliata. Il sindaco eletto dai cittadini, con il 60 e passa per cento dei voti per altro, lo devono giudicare i cittadini. E poi, insieme a lui, sarebbe stata travolta una intera giovane classe dirigente sui cui avevamo scommesso, con punte di assolute eccellenza fra i presidenti dei Municipi. Per la prima volta nella storia li governavamo tutti. Da quella crisi, con una sinergia fra Governo, Regione e Comune si sarebbe potuti uscire. Il sindaco ritirò le dimissioni e Orfini, invece, di riportare la vicenda in consiglio comunale, dove un dibattito pubblico avrebbe dato modo di dare a tutti la possibilità di dire la propria, ordina ai consiglieri di dimettersi, firmando di fronte a un notaio. Deve anche ricorrere a un aiutino dalla destra perché fra gli alleati qualcuno si rifiuta. Non sarà ricandidato, come Mino Dinoi, ad esempio.
Io resto convinto che Marino si sia fidato troppo e che, quando scoppio Mafia Capitale, si sarebbe dovuto dimettere per far sciogliere il consiglio comunale e ricandidarsi presentandosi come il paladino della legalità, l’uomo che sfidava ancora una volta i poteri forti. Quei poteri forti che, al di là del giudizio su quegli anni, non lo hanno mai potuto sopportare.
Insomma: fine 2015, seconda parte del golpe romano. Cade il Comune, si torna alle elezioni. Che poi, per i protagonisti di quella vicenda è stato l’inizio della serie di sconfitte che ha portato alla situazione attuale. Come dire: le congiure di palazzo non portano bene a chi le architetta.
Renzi che va, Renzi che viene.
Il pippone del venerdì/80
Non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Ci sarà solo da aggiornare il conto delle formazioni politiche personali. E del resto mica era possibile che fosse soltanto la sinistra a sfaldarsi, è proprio questa società che non tiene più. Le varie diaspore politiche sono la conseguenza. La politica non può che essere lo specchio fedele di un paese, della situazione sociale, delle evoluzioni dei costumi. E se un società diventa sempre più individualista, cattiva ed escludente, la politica non può che ripercorrere questi tratti. Il settarismo va di gran moda, il “meglio comandare in una casa piccola che stare insieme ad altri in una più grande” oramai è una sorta di mantra che si sente in ogni angolo.
E comunque, si diceva, non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Almeno per quelli come me che sono convinti che l’errore, anzi direi l’equivoco, stia nell’esistenza stessa di una formazione politica che riunisce due culture distinte. Non si mescolano, al massimo una prova a cancellare l’altra. Come è successo con la famosa rottamazione, che non era la semplice sostituzione di una classe dirigente. Non era un salutare scontro generazionale. Tutt’altro: era la fase finale della cancellazione di una cultura politica, quella che, con una semplificazione necessaria alla salute dei lettori, oserei definire “togliattiana”. La rottamazione era la fine di quell’idea di partito e di funzione del partito nella società che era stata definita nel Pci del dopoguerra e perfezionata con Berlinguer.
Cambia qualcosa se il segretario sarà Zingaretti? Con tutta la stima che ho da sempre per il presidente della Regione Lazio, credo di no. Intanto perché secondo me Zingaretti la sua occasione vera l’ha persa alle primarie del 2009. Un ampio fronte, quello si davvero generazionale, gli chiese di mettersi alla guida di un processo di rinnovamento del partito e candidarsi alle primarie che non potevano risolversi in una conta fra Bersani e Franceschini. Una sfida che sembrava guardare più al passato che al futuro. Zingaretti disse di no, spiegò che il suo impegno era tutto teso alla riconquista di Roma (salvo poi ritirarsi per candidarsi alla Regione). Sappiamo come è andata la storia del Pd da quel momento in poi.
Resto convinto anche dieci anni dopo che quella fosse l’occasione di fare del Pd un partito e non una federazione di correnti personali. Ora è tardi. E’ tardi per due ordini di ragioni. Intanto perché quel simbolo ormai viene associato indissolubilmente a una stagione, quella delle leggi contro i lavoratori, quella delle leggi truffa, quella della riforma costituzionale. Ma è tardi soprattutto perché quel partito ha consumato il legame “empatico” non solo con i suoi elettori, ma con i suoi militanti. C’è stata una rivoluzione genetica che ha cancellato una comunità. Non basta il cambio di un segretario né tanto meno basta invocare una generica discontinuità. Tanto più che appostati dietro di lui c’è la fila di quelli che hanno lavorato strenuamente per arrivare alla situazione odierna. Da Franceschini in giù. Nel Lazio, tanto per dirne una, il candidato di Zingaretti alla segreteria regionale era Bruno Astorre, uno che si vantava pubblicamente di “comprare” migliaia di tessere.
Insomma, per non farla troppo lunga, il presunto partitino di Renzi rappresenterebbe sicuramente una novità, ma non la soluzione del problema. Con Zingaretti, ovviamente, sarà possibile aprire un dialogo. Ma si potrà fare solo se avverrà da pari a pari. Soltanto se, nel frattempo, saremo riusciti a dare una casa aperta e stabile allo stesso tempo a quello che resta della sinistra italiana. Resto molto pessimista, la tentata nascita dell’altro partituncolo personale, quello annunciato da Grasso, è un altro ostacolo in un percorso già travagliato. Credo però che prima o poi dovremo fermarci e contare fino a dieci. Ormai ho la certezza che il problema non siano le divaricazioni programmatiche, su quelle una via di mezzo siamo bravissimi a trovarla. Il vero problema è la sopravvivenza dei diversi gruppi dirigenti. Per fortuna le prossime elezioni europee spazzeranno via quello che ne resta. Sarebbe bene capirlo prima e attrezzarsi, ma mi pare che gli egoismi prevalgano. Le liste della sinistra all’appuntamento di maggio saranno almeno quattro e prima si voterà in 4 regione e 4.200 Comuni. Serviranno a confermare l’irrilevanza di ognuno. Né il pur generoso tentativo di Speranza e soci sembra nascere sotto i migliori auspici. Staremo a vedere.
Eppure avere una solida e autonoma formazione alla sua sinistra aiuterebbe anche Zingaretti a tenere a bada i suoi alleati di oggi, accoltellatori seriali che non vorrei mai avere alle mie spalle. Ridefinire un’alleanza progressista in grado di opporsi alle destre è sicuramente una priorità. Ma non funziona un campo – uso questo termine che va tanto di moda – in cui ci sia un partito e tante liste civetta. Funziona uno schieramento vero, con una base culturale comune che viene tradotta in un programma di governo. Se si uniscono, insomma, strategia e tattica. E per fare questo serve una sinistra che esca dall’abbaglio del neoliberismo e torni a essere popolare. Che si occupi, la finisco qui perché so di essere noioso e ripetitivo, delle condizioni materiali del suo blocco sociale, che dia rappresentanza ai tanti movimenti che proprio in questi mesi tornano a far sentire la propria voce. Mettiamo l’orecchio a terra e guardiamo avanti. Forse ne usciamo vivi.
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